di Elia Carrai • Esistono parole la cui forza è quella di indicare distintamente un dato oggetto, fenomeno, evento; e ve ne sono altre il cui pregio sembra, al contrario, esser quello di non aderire mai in modo indelebile ed univoco a quanto pretendono indicare: parole utili a dare un nome a tutto ciò che sfugge a una “presa” salda ed efficace del conoscere. L’espressione «modernità» rientra nel novero di queste parole “ampie”. Per quanto si voglia dettagliare, ora nelle discipline storiche, ora in quelle sociologiche e via discorrendo in tutte le altre branche del sapere, la parola «modernità» sembra sfuggire alla possibilità di una sua completa definizione: parola “aperta” per eccellenza e, proprio per questo, sempre a rischio di ridursi a “zona franca” che storici e filosofi (tra gli altri) si riservano di usare con ampi margini di arbitrarietà, attribuendo differente -e talvolta opposto- peso e valore ai singoli fattori che si intrecciano in essa. Tale arbitrarietà semantica, per riprendere le parole di Herman Lübbe, fa sì che «[…] i concetti, non essendo più inseriti in un discorso complessivo fatto nel presente, rimangono per così dire senza padrone. Non c’è più alcuna istanza che li difenda. Diventano patrimonio comune dal quale ciascuno prende ciò che più gli aggrada, senza che ci sia un’istanza responsabile della sua unità e consistenza» (H.Lubbe, La secolarizzazione, Società editrice il Mulino, Bologna, 1970, 10-11).
In un simile contesto, assistiamo oggi ad un uso sempre più frequente e “facile” di un altro concetto “ampio”: quello di «postmodernità»; termine senza dubbio affasciante, dalla carica evocativa non indifferente. Se l’etimologia di «moderno» ci rimanda a quanto riferibile al presente, a ciò che è più propriamente attuale; l’espressione «postmoderno» indica il proiettarsi di questo stesso presente oltre se stesso, oltre il Kairos di quest’ora: un progresso che si comprende come superamento continuo di se stesso e, proprio così, irrimediabilmente passato. «The time is out of joint» esclamava già l’Amleto di Shakespeare; «disgiuntura nella presenza stessa del presente,[…] non-contemporaneità a se stesso del tempo presente» ha più recentemente scritto Derridà. (J. Derridà, Gli spettri di Marx, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994, 36)
Andando oltre le suggestioni che la parola postmodernità può evocare, è decisivo constatare il rischio, con questo termine, di mettere da parte la modernità troppo frettolosamente, senza ancora aver compreso cosa essa sia realmente, finendo per trascinare questa radicale incomprensione nell’ambito stesso del concetto di postmoderno; concetto ambiguo, il quale sorge non tanto al vertice della parabola di autocomprensione dell’evo moderno, quanto -vedremo- da un misconoscimento dello stesso (cfr. Fides et Ratio 91). In questo senso il rischio di liquidare facilmente la parola «modernità», con una più accattivante e funzionale espressione, che si lascia alle spalle la prima con tutta la sua carica problematica, manifesta il più profondo rifiuto di prender coscienza e fare intimamente i conti con cosa realmente sia «modernità».
Nelle diverse e possibili letture che vengono date della coscienza post-moderna, questa risulta gravata della consapevolezza che qualcosa è irrimediabilmente venuto meno: per Lyotard le grandi metanarrazioni che strutturavano il sapere moderno(J-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Rapporto sul sapere, Feltrinelli Editore, Milano 2014); per un Kaufman è la stessa fede nel progresso ad essersi esaurita (F. X. Kaufman, Quale futuro per il Cristianesimo?, Queriniana, 2002); secondo Bauman la ricerca del piacere individuale, identificato con la felicità, ha portato a una profonda riduzione della sicurezza personale (Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, Milano 2002, in particolare l’introduzione). Qualcosa della modernità, secondo il pensare postmoderno, sembra non aver corrisposto alle promesse e alle attese che aveva maturato in se stessa; da tale consapevolezza («Il Re è nudo!», raccontava una vecchia favola) sorgerebbe, così, una nuova autocomprensione storica. Un concetto, quello di postmodernità, all’insegna del venir meno, un concetto “parricida”, la cui architrave semantica è la perentoria particella post, ultimamente squalificante la modernità: una squalifica che non rende onore alla modernità stessa, rischiando di risparmiarci il complesso compito della sua decifrazione, dei suoi frutti, delle sue aspirazioni. Se Lyotard o Bauman, parlando di postmodernità si trovano ogni volta risospinti ad una più profonda comprensione di cosa sia effettivamente modernità, oggi l’uso piuttosto “leggero” del termine «postmoderno» (pensiamo ai media) somiglia spesso ad un voler voltare pagina, per trovare quello spazio in cui potersi ricostruire un’identità finalmente liberata dalle contraddizioni di un’epoca (quasi non avvertendo i toni drammatici che accompagnano la genesi del concetto «postmodernità»).
Questa disamina rapida e certamente parziale intorno a due concetti così decisivi per la comprensione del nostro tempo presente suggerisce l’ipotesi, tutta da vagliare ed approfondire in altra sede, che il concetto «modernità» non possa essere semplicemente soppiantato (in quanto esauritosi) da quello di «postmodernità» e che piuttosto, come sembra lasciare intendere Bauman, la postmodernità non sia altro che una versione della modernità stessa, non il suo superamento (vedi Z. Bauman, Nati liquidi, Sperling and Kupfer, Milano, 2017). Risulterebbe così adeguato parlare di postmodernità nella misura in cui è funzionale a una più chiara rimessa in questione di cosa sia la modernità, e non per un superamento (per lo più concettuale) della stessa. Così sottolineava una simile urgenza lo stesso Benedetto XVI: «Infatti la crisi della modernità non è sinonimo di declino della filosofia; anzi la filosofia deve impegnarsi in un nuovo percorso di ricerca per comprendere la vera natura di tale crisi e individuare prospettive nuove verso cui orientarsi. La modernità, se ben compresa, rivela una “questione antropologica” che si presenta in modo molto più complesso e articolato di quanto non avvenisse nelle riflessioni filosofiche degli ultimi secoli, soprattutto in Europa. Senza sminuire i tentativi compiuti, rimane ancora molto da indagare e da comprendere. La modernità non è un semplice fenomeno culturale, storicamente datato; essa in realtà implica una nuova progettualità, una più esatta comprensione della natura dell’uomo» (Benedetto XVI, ai partecipanti al VI simposio europeo “Allargare gli orizzonti dalla razionalità. Prospettive per la filosofia”, 7 giugno 2008). Sfida, quella appena delineata, che non tocca solo la riflessione filosofica , ma lo stesso pensare cristiano. L’intelligenza che scaturisce dalla fede, come sguardo rinnovato su di sé e sul mondo non può esimersi dal fare i conti con la cultura in cui si trova immersa. Se, di fatto, un cristianesimo disincarnato da una qualche forma culturale non si è mai dato, allora la comprensione dell’epoca storica che attraversiamo e del suo mutamento non è qualcosa di secondario ma di essenziale. Il farsi carne del Verbo si rivela, da questo punto di vista, come il permanente invito a non lasciarsi semplicemente alle spalle la propria cultura, o contrapporsi ad essa, quanto lasciarne emergere i frutti migliori ed autentici così da lasciare indietro solo quanto realmente superato, superfluo, non esistenzialmente attraente: «[…] il Logos stesso -affermava il card. Ratzinger- deve incidere le nostre culture ed i suoi frutti, cosicché ciò che non era fruibile venga purificato e non divenga soltanto fruibile, ma buono. […] si, ultimamente è solo il Logos stesso, che può condurre le nostre culture alla loro autentica purezza e maturità, ma il Logos ha bisogno dei suoi servitori […]» (J.Ratzinger, «Il Logos e l’evangelizzazione della cultura», in CEI, Parabole mediatiche. Fare cultura nel tempo della comunicazione, EDB, Bologna 2003). Da questo punto di vista ogni epoca, con le culture che la contraddistinguono, non sarà mai per il cristiano completamente “da buttare”, si rivelerà piuttosto, ogni volta, invito a cogliere il positivo ed affermarlo lasciando che proprio in questo dinamismo positivo il resto venga «purificato». Superare la logica meramente oppositiva con l’epoca e il tempo in cui vivono è per i credenti in Cristo tra le sfide più urgenti: la fede non si colloca semplicemente a lato della cultura, ma vive in essa, la attraversa e la plasma, rivolgere la fede semplicemente contro le contraddizioni della cultura presente non può essere sufficiente: «Il desiderio di una pienezza di umanità non può essere disatteso: attende proposte adeguate. La fede cristiana è chiamata a farsi carico di questa urgenza storica, coinvolgendo tutti gli uomini di buona volontà in una simile impresa. Il nuovo dialogo tra fede e ragione, oggi richiesto, non può avvenire nei termini e nei modi in cui si è svolto in passato. Esso, se non vuole ridursi a sterile esercizio intellettuale, deve partire dall’attuale situazione concreta dell’uomo, e su di essa sviluppare una riflessione che ne raccolga la verità ontologico-metafisica» (Benedetto XVI, cit., 7 giugno 2008). Proprio perché non accada di compiere questa riduzione intellettualistica è necessario, infine, prender coscienza di come questa modernità con cui fare i conti non è qualcosa che semplicemente sta innanzi a noi, essa è parte delle nostre persone, del come ci comprendiamo e di come ci rapportiamo al reale: «L’essere cristiano non deve ridursi per così dire ad uno strato di vecchio tessuto sottocutaneo che in qualche modo mi appartiene ma che vivo parallelamente alla modernità. L’essere cristiano è esso stesso qualcosa di vivo, di moderno, che attraversa, formandola e plasmandola tutta la mia modernità, e che quindi in un certo senso veramente la abbraccia. […] È importante che cerchiamo di vivere e di pensare il Cristianesimo in modo tale che assuma la modernità buona e giusta» (BENEDETTO XVI, Luce del mondo, LEV, 2010, 88). Proprio per questo abbiamo sottolineato come non si possa indulgere in un uso del concetto di «postmodernità» all’insegna della squalifica della «modernità» stessa, quei pensatori che parlando del postmoderno hanno colto tale urgenza ci mostrano che rimane ancora oggi decisivo comprendere cosa sia la modernità, «la mia, la nostra, modernità». Lo stesso Bauman, in un commento informale, sembra abbia sentenziato che «per essere moderni, bisogna prima essere stati post-moderni»; postmodernità, quindi, come una versione della modernità. Il cristianesimo ha il compito di riconoscere e liberare il meglio delle istanze socio-culturali di questa nostra contemporaneità, assumendo ogni volta l’Incarnazione come l’unico autentico principio di novità nella storia. L’invito della Prima Lettera ai Tessalonicesi, «Vagliate tutto e trattenete il valore/il bello» (1Ts 5,21), non sarebbe innanzitutto l’invito a “mettere ordine” nella cultura e nel contesto in cui i credenti erano immersi, quanto un invito a che “l’immersione” sia totale e radicale, un rapporto col reale senza preclusioni, ricerca inesausta, in tutto, del bello e del vero, nella certezza che «la realtà è di Cristo» (Col 2, 17).