di Leonardo Salutati • Nel momento in cui il magistero della Chiesa è chiamato a pronunciarsi con la sua Dottrina sulla questione sociale e sulle questioni sociali che, con nuove ed inedite modalità, si presentano nella società, l’invito biblico e tradizionale a prendersi cura del “povero” è ulteriormente sviluppato e arricchito. Nella Rerum novarum del 1891, al n. 29 si ricorda che lo Stato nel tutelare debitamente i diritti, deve esercitare una opzione preferenziale per i poveri e per i deboli, i quali più di tutti hanno bisogno di essere sostenuti dallo Stato.
Secondo quanto riportato quaranta anni dopo da Quadragesimo anno al n. 13, nel 1931, in un contesto di forte liberalismo economico, Rerum novarum apparve scandalosa proprio per affermazioni di questo tenore. La stessaQuadragesimo anno però si impegna a sua volta in una dura analisi della situazione “classista”, denunciando la volontà dei ricchi di lasciare solo alla carità la soluzione del problema della povertà, in modo da non riconoscere alcun compito attribuibile allo stato (QA 4 ss.)
Pio XII nel Radiomessaggio del 1 settembre 1944, esprime un duro giudizio sul concetto di proprietà. Egli afferma che quando il capitalismo si arroga un diritto illimitato sulla proprietà, sconvolgendo e dominando l’economia, generando il concentrarsi della proprietà in soggetti limitati, sottraendosi ai propri doveri sociali e privando altri della necessaria disponibilità di beni, promuove un concetto assoluto di proprietà da ritenersi come contrario alla legge naturale:
Nel 1961 Giovanni XXIII con Mater et magistra interviene a sua volta perché è preoccupato dei poveri e perché la Chiesa, coerentemente con la sua dottrina, difende i diritti dei poveri (MM 2 e 9). Questa sollecitudine per i poveri accompagnerà Giovanni XXIII fino alla fine. Infatti, nell’indire il Concilio Vaticano II, cui aveva assegnato il compito di rimettere in luce l’autentica missione della Chiesa, la volle direttamente proporre al mondo nel messaggio teletrasmesso l’11 settembre 1962: «Il Concilio dovrà contribuire alla diffusione del senso sociale e comunitario che è immanente nel cristianesimo autentico. Solo così la Chiesa potrà presentarsi come la Chiesa di tutti, ma anzitutto come la Chiesa dei poveri».
Nel 1967 la Populorum progressio di Paolo VI ribadisce, arricchendolo ulteriormente, il tradizionale insegnamento cristiano in tema di economia; invita esplicitamente ad abbassare il livello di vita dei ricchi per aiutare i poveri; denuncia l’idolatria del mercato e la riduzione dell’uomo alla sola dimensione economica, manifestando tuttavia fiducia nell’uomo anche contro l’apparente evidenza di una certa ineluttabilità nel processo storico (PP 22; 23).
Nessun popolo può … pretendere di riservare a suo esclusivo uso le ricchezze di cui dispone. … Di fronte alla crescente indigenza dei paesi in via di sviluppo, si deve considerare come normale che un paese evoluto consacri una parte della sua produzione al soddisfacimento dei loro bisogni (PP 48).
Una cosa va ribadita di nuovo: il superfluo dei paesi ricchi deve servire ai paesi poveri. … I ricchi saranno del resto i primi ad esserne avvantaggiati. Diversamente, ostinandosi nella loro avarizia, non potranno che suscitare il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con conseguenze imprevedibili. Chiudendosi dentro la corazza del proprio egoismo, le civiltà attualmente fiorenti finirebbero coll’attentare ai loro valori più alti, sacrificando la volontà di essere di più alla bramosia di avere di più (PP 49).
Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis del 1987, nel richiamare che la tradizione della chiesa ha sempre scorto nel lavoro umano una finalità trascendente in quanto è in relazione all’opera stessa di Cristo ricorda che:
Fa parte dell’insegnamento e della pratica più antica della Chiesa la convinzione di esser tenuta per vocazione – essa stessa, i suoi ministri e ciascuno dei suoi membri – ad alleviare la miseria dei sofferenti, vicini e lontani, non solo col «superfluo», ma anche col «necessario». … Di fronte ai casi di bisogno, non si possono preferire gli ornamenti superflui delle chiese e la suppellettile preziosa del culto divino; al contrario, potrebbe essere obbligatorio alienare questi beni per dar pane, bevanda, vestito e casa a chi ne è privo. Come si è già notato, ci viene qui indicata una «gerarchia di valori» – nel quadro del diritto di proprietà – tra l’«avere» e l’«essere», specie quando l’«avere» di alcuni può risolversi a danno dell’«essere» di tanti altri. (SRS 31).
Da notare, di passaggio, l’arricchimento del concetto di proprietà che, pensato nel quadro di una gerarchia di valori tra l’avere e l’essere, denuncia il degrado dell’essere della persona quando si assolutizza l’avere invertendo il fine, la promozione dell’uomo, con il mezzo, i beni e la ricchezza a disposizione.
In conclusione non è una novità, ma anzi appartiene alla più antica tradizione cristiana l’affermare di Papa Francesco di volere una chiesa per i poveri, attenta ai bisogni del povero, e una chiesa povera, che si pone come istanza critica di ogni separazione tra gli uomini, nella rinuncia esplicita di ogni tentativo di costituire una casta privilegiata e con la coscienza di appartenere pienamente alla famiglia umana, anzi di esserne il fermento, così come insegna il Concilio Vaticano II inGaudium et spes:
La Chiesa, che è insieme “società visibile e comunità spirituale”, cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena, ed è come il fermento e quasi l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio (GS 40).