di Antonio Lovascio • Lasciando il Cairo da coraggioso “pellegrino di pace”, dopo aver condannato le violenze del fondamentalismo e del terrorismo islamico, Papa Francesco ha invitato tutti i belligeranti a fermarsi: «Oggi una guerra allargata distruggerebbe buona parte dell’umanità, è terribile. Serve una soluzione diplomatica e un intervento dell’Onu, che ha il dovere di riprendere la sua leadership perché si è un po’ annacquata». E’ stato l’ennesimo, forte richiamo alla “terza guerra mondiale a pezzi”, della quale parla da due anni. Troppi avvenimenti si sono succeduti nelle ultime settimane: quello che sta accadendo in Corea del Nord (il presidente Trump, aprendo indirettamente un braccio di ferro con la Cina, ha mandato nel Pacifico navi militari, il dittatore Kim Jong ha risposto minacciando di bombardare la Corea del Sud ) è solo l’ultimo atto di una terrificante escalation, che ha visto i missili lanciati dagli americani sull’aeroporto siriano di Al Shayrat; tensioni crescenti fra Mosca e Washington, non certo cancellate da una telefonata tra i Capi della Casa Bianca e del Cremlino, che si sono dati appuntamento al prossimo G20 di luglio ad Amburgo; la madre di tutte le bombe sganciata dal Pentagono in Afghanistan. Per non parlare dei Paesi che stanno soffrendo conflitti interni in Medio Oriente, Yemen, Africa; dei sanguinosi eccidi dei cristiani in Egitto fino ai naufraghi del Mediterraneo, riguardo ai quali le decine o le centinaia di morti non solo non fanno più storia, ma purtroppo nemmeno notizia, se non per le polemiche sui salvataggi in mare, dopo le accuse del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, che ha ipotizzato anche possibili finanziamenti da parte dei trafficanti di uomini alle Organizzazioni umanitarie.
Siamo entrati in una fase di politica muscolare globale, nella quale gli Stati Uniti (a differenza di quanto il presidente neoeletto faceva intendere in campagna elettorale, strizzando l’occhio a Putin) danno l’impressione di voler rapidamente ripristinare i rapporti di forza esistenti quando nel 1991 è crollata l’Unione Sovietica. Una strategia militare fatta di armi chimiche e convenzionali, ma pure di tanta propaganda, che, prevedibilmente, proseguirà anche in futuro. Secondo gli esperti è un gioco estremamente pericoloso: nessuno infatti sa quando e come gli altri replicheranno ; anche se non è difficile intuire che Trump conta di ripetere quanto riuscì a Reagan allorchè fece cadere l’URSS. Il quadro è tuttavia molto diverso da allora: la Russia è profondamente radicata in Medio Oriente e in Ucraina; se Putin sente il fiato addosso degli americani, solitamente controbatte da par suo: nel breve termine potrebbe raddoppiare il sostegno ad Assad. La Siria ruota nell’orbita di Mosca dal 1971, quando il padre di Bashar diventò presidente e sperava, con l’aiuto militare sovietico, di recuperare il Golan da Israele, peso nel 1967 quando lui comandava l’Aviazione.
Se l’America ha la sua linea rossa – esibire il duro piglio della superpotenza per compiacere gli alleati israeliani e sauditi – la Russia ne ha tracciata un’altra: non si fanno cambi di regime senza il consenso di Mosca, che aveva già dovuto inghiottire la caduta di Gheddafi nel 2011 (Molti altri se ne stanno pentendo!). Le democrazie occidentali sono tra Scilla e Cariddi. Possono fare del loro meglio per cacciare Assad privandolo di qualsiasi riconoscimento internazionale o assestando – come nel caso della rappresaglia americana – qualche duro colpo militare. Ma rischiano in questo modo di favorire l’ISIS, che l’esercito sciita iracheno sta cercando di sconfiggere a Mosul con l’aiuto della Casa Bianca. L’unico modo per uscire da questa trappola sarebbe quello di decidere quale sia il nemico peggiore: Assad o l’islamismo fanatico e radicale ? La Russia ha già scelto da che parte stare. L’Europa che si sta distraendo (o sciogliendo ?) nelle competizioni elettorali, dovrebbe interrogarsi su cosa succederebbe dopo l’eliminazione del tiranno di Damasco, ricordarsi che il Mediterraneo è la sua casa, non quella degli Stati Uniti.
Nello scacchiere internazionale assistiamo poi alla progressiva ascesa (non solo economica) della Cina: sta cambiando gli equilibri non solo in Asia, ma in tutto il pianeta. E ancora più li cambierà in avvenire. Trump sa benissimo che Pechino non abbandonerà mai lo spericolato e stravagante Kim Jong, se non riceverà in cambio cospicue concessioni da parte degli Usa, che, a loro volta, non sono in grado di imporre nulla alla Cina senza pagarne il congruo prezzo. Per questo, come prevede Romano Prodi, non ci sarà un conflitto nucleare, ma assisteremo forse (e lo speriamo vivamente!) a un lungo negoziato, magari anche sotto traccia, nel quale gli eredi di Mao si impegneranno a rendere un po’ più difficile la vita al dittatore nordcoreano e gli Stati Uniti saranno meno rigidi nei confronti delle importazioni dalla Repubblica Popolare, che tanto pesano sulla bilancia commerciale e sui posti di lavoro americani. Senza tener conto che il Paese più popolato del pianeta (oltre 1 miliardo e 375 milioni di abitanti) a sua volta potrebbe aprire gradualmente il più appetibile e meno sfruttato mercato mondiale. Sarà un’illusione: il business può fermare o almeno frenare la sfida nucleare!