di Alessandro Clemenzia • Nel discorso d’apertura in occasione dell’Assemblea generale della CEI, Papa Francesco, dopo aver ricordato che la fede non è una semplice trasmissione di una dottrina ma “memoria viva di un incontro”, ha asserito una frase di straordinaria portata teologica: “Una spiritualità eucaristica chiama a partecipazione e collegialità”. Senza entrare nel discorso sulla “partecipazione” e la “collegialità” (forme attuative della natura stessa della Chiesa), vorrei qui accennare a quale contributo possa offrire una spiritualità eucaristica all’autocoscienza della Chiesa di essere “Chiesa”. Essendo la fede un incontro, come il Papa stesso ha ricordato, e dunque un’esperienza di vita che afferra il soggetto credente nella globalità della sua persona, più che di “spiritualità”, termine che sembra relegare il discorso ad una sola componente dell’uomo (seppure essenziale), sarebbe meglio parlare di “logica” eucaristica che va a costituire dall’interno una nuova coscienza del “noi” ecclesiale.
Tornano alla mente alcune parole del teologo russo Sergej Nikolaevič Bulgakov, che spingono proprio nella stessa direzione: «Il noi non è solo una forma grammaticale, ma è una vera e propria rivelazione della lingua a proposito della natura dell’io, che esiste soltanto nell’accettazione del con-io. […] Noi è l’amore ontologico nell’io, che non vive soltanto in se stesso, ma anche nel tu e nell’egli, nella misura in cui l’amore è veramente vita nell’altro e attraverso l’altro» (S.N. Bulgakov, «Capitoli sulla Trinitarietà», in P. Coda, Sergej Bulgakov, Brescia 2003, pp. 67-171, qui p. 77).
L’Eucarestia, esemplificando il discorso al di là di tutta una riflessione sacramentale che non può essere obliata o tralasciata, è Gesù, il Cristo, nel suo atto di piena donazione agli altri. È un darsi, si potrebbe dire, all’insegna della “gratuità aperta”. È un atto prima di tutto “gratuito”, in quanto la libertà del gesto non è racchiudibile all’interno di una logica dello scambio, che obbligherebbe il destinatario ad una risposta. Gesù ha indicato formalmente tale gratuità nel richiamo di non invitare a pranzo o a cena coloro che in un modo o nell’altro possono ricambiare l’invito (cf. Lc 14,12-14), o quando il Nazareno, nel momento dell’arresto, con quel “sono io!” ha portato l’attenzione dei soldati unicamente su di sé, domandando che “i suoi” potessero essere lasciati liberi da ogni accusa (cf. Gv 18, 4-9). Il darsi di Gesù ai suoi, dunque, non chiede una restituzione della vita nei suoi confronti; in questa accezione, la misura della donazione dovrebbe essere, almeno intenzionalmente, a fondo perduto. Questo, dunque, è un primo momento della logica eucaristica: la gratuità del dono.
Tale gratuità, inoltre, è sempre “aperta”: non è racchiudibile all’interno di una relazione reciproca “a due”. L’apertura non risiede tanto nella predisposizione interiore di chi dona, quanto nel dono stesso, come energia vitale e feconda contenuta nell’atto stesso della donazione che passa dal donatore al donatario, rivestendo quest’ultimo della medesima capacità: il recettore del dono, infatti, nell’accoglierlo, è chiamato non tanto alla restituzione diretta al donatore, ma ad assumere come propria la dinamica ricevuta, rivolgendo il suo sguardo non più al donatore ma a terzi (rendendo così ridondante il dono ricevuto). Anche questo secondo momento della logica eucaristica è chiaramente espresso da Gesù nel momento in cui, offrendo la propria vita per i suoi, ha chiesto a ciascuno di loro di donarla a sua volta, non per Lui, ma per i fratelli (ma anche questo “l’avete fatto a me”). Tale relazione asimmetrica esprime, recuperando una formulazione del teologo Piero Coda in un suo ultimo manuale sulla Trinità, una “reciprocità reciprocante” (Dalla Trinità. L’avvento di Dio tra storia e profezia, 566), vale a dire una forma di relazione che si attua non solo nella dia-logicità, ma anche nell’apertura a terzi, come fecondità della gratuità originaria.
Questa logica, che abbiamo chiamato “eucaristica”, è la manifestazione della stessa vita divina, in cui il Padre e il Figlio si amano tra loro nel Terzo, nello Spirito Santo; il quale, a sua volta, viene donato, e quindi si rivolge extra Deum, investendo tutta l’umanità (il non-Dio). La “gratuità aperta”, in altre parole, è il ritmo della comunione.
Afferma Papa Francesco: “Una spiritualità eucaristica chiama a partecipazione e collegialità, per un discernimento pastorale che si alimenta nel dialogo, nella ricerca e nella fatica del pensare insieme”. Ma se tale discernimento pastorale non diventa il luogo di una comunionalità vissuta e consapevole, in cui l’atto del pensare scaturisce dalla percezione di una Presenza totalmente “data” ed è offerto a terzi come possibilità di generare in loro la stessa esperienza di fede, la partecipazione e la collegialità allora possono rischiare di perdere la loro efficacia teo-logica.