di Francesco Romano • Il Segretario di Stato Card. Pietro Parolin nell’omelia della Messa del 18 febbraio scorso, celebrata nella cappella del Governatorato per l’apertura dell’anno giudiziario del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, ha detto che “una pena senza speranza” dovrebbe scomparire dagli ordinamenti giuridici, riferendosi non solo alla pena di morte, ma anche all’ergastolo. La fallacia della giustizia umana deve ispirare gli operatori della giustizia alla cautela. Non a caso l’articolo che ne riporta la notizia, pubblicato su L’Osservatore Romano del 18 febbraio 2017, è stato intitolato in modo molto appropriato “Legge divina e fallibilità umana”.
Commentando il brano evangelico della Trasfigurazione, il Card. Parolin ha colto lo spunto per dire che la luce che ci dona il Signore deve impegnarci in un’opera di trasfigurazione del male per sradicarlo, di combattere l’odio per sostituirlo con l’amore, la vendetta e la ferocia con la misericordia, la pietas e il perdono. “La giustizia terrena tramite lo sforzo onesto dei suoi operatori deve diventare come un Tabor dove Elia rappresenta la carica profetica di novità e di apertura, mentre Mosè la legge naturale scolpita nel cuore degli uomini, alla quale deve ispirarsi la legge positiva umana”.
Rispetto alla legge civile, la legge canonica esprime un diverso orizzonte. Il diritto canonico regola una comunità nell’ambito di una esperienza ecclesiale che ha come principio fondamentale la communio fidelium che si realizza in forza della grazia. Si tratta di un diritto che ha per fine la salus animarum non come conquista personale, ma come possibilità vista nella dinamica di comunione. E’ evidente che il diritto canonico non garantisce la salvezza delle anime, ma per il suo carattere teologico coinvolge la comunità ecclesiale a restare fedele alla sua missione e a realizzare la comunione.
La legge canonica e la legge civile, pur nelle loro differenti finalità, hanno in comune di essere di diritto umano, ma allo stesso tempo di recepire anche formulazioni che non sono il prodotto dell’uomo. Il diritto canonico, oltre alle leggi che la Chiesa si da per regolare la sua vita nel tempo, recepisce anche il diritto divino naturale e il diritto divino positivo. Quanto alle norme che gli ordinamenti civili degli Stati recepiscono, se ne possono rinvenire numerose con una valenza universale riconducibili ai principi primi come per esempio, “pacta sun servanda”, “bonum est faciendum et prosequendum, malum vitandum”, oppure il rispetto della vita che si concretizza prima di tutto nella norma “non uccidere”.
L’intrinseca dignità della persona umana, vuoi che abbia come fonte il diritto divino, naturale o positivo, oppure che sia percepita come immanente alla natura umana, pur senza riconoscerle un’origine trascendete come nel pensiero giusnaturalista moderno, si muove su linee comunque convergenti nel riconoscere il valore fondamentale del suo primato. Fatta questa premessa, non può lasciare senza preoccupazione l’inadeguatezza e la fallibilità degli operatori della giustizia umana nel dover risolvere problematiche in punto di diritto riconducibili a norme che hanno come fonte il diritto divino o comunque un orizzonte universale, quantunque immanente nella natura umana fatto di principi validi per tutti.
Il diritto, avendo come fondamento e fine la persona umana, è chiamato a rispondere ai bisogni primari dell’uomo e della società per la promozione del bene comune senza trascurare la singola persona. Il carattere coattivo della norma ha il suo fondamento non semplicemente nell’appartenenza a un ordinamento giuridico, ma nella norma in se stessa quando si tratta di determinazioni su ciò che è giusto. Solo la giustizia giustifica l’obbligatorietà della norma, non solo come regolatrice di relazioni tout court, ma in quanto guidata del criterio che pone al centro il riconoscimento della dignità della persona umana senza discriminazioni.
Nel rapporto giuridico è insita la relazione con l’altro regolata dal diritto. Il diritto è la prima forma di apertura al prossimo, ma lo è anche la carità vista dal versante non laicista, “caritas ergo inchoata, inchoata iustitia est; caritas provecta, provecta iustitia est; caritas magna, magna iustitia est; caritas perfecta, perfecta iustitia est”, come afferma S. Agostino (De natura et gratia, 70). La giustizia non è alternativa alla carità, ma si muove nella stessa direzione nel riconoscere il primario valore della persona umana, il nesso tra diritto e dignità.
L’obbligatorietà di una norma risponde alla necessità giuridica dei membri di una società di predisporre, mediante sanzioni e misure coercitive, l’osservanza delle norme. Tuttavia, la sanzione non è un elemento costitutivo della norma e neppure della sua obbligatorietà. La finalità del diritto penale non è soltanto l’espiazione della colpa, anzi questa ha senso se è congiunta al recupero del reo. Per il primato della dignità della persona umana nessuna colpa potrà mai cancellare fino in fondo l’obbligo di portarle rispetto offrendo al reo attraverso la pena la possibilità di riflettere sulla propria responsabilità e prendere coscienza di aver abusato della libertà. L’ordinamento canonico, all’aspetto vendicativo delle pene, privilegia l’aspetto pastorale delle sanzioni al punto di contraddistinguere le più gravi con l’appellativo di pene “medicinali”. La pena della scomunica ne è la dimostrazione. Con la sanzione del reo la Chiesa non ha come finalità la sua espulsione dalla comunità. Al contrario, la punizione è espressione del carattere tutto pastorale e salvifico della Chiesa che sostiene il reo nella maturazione del suo pentimento e lo riconduce al suo seno.
Questo è anche un possibile argomento contro la pena di morte o dell’ergastolo, come accennava il Card. Parolin. Non esiste un limite oltre il quale una persona come tale abbia completamente esaurito la sua dignità fondamentale da perdere il diritto di appartenenza al genere umano e alla comunità. Inoltre, il diritto è permeato dalla giustizia e, se è autentico, non può attuarsi senza di essa. Significative sono le parole di S. Agostino: “remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia? […] Placiti lege, preda dividitur” (De civitate Dei, IV, 4).
L’ordinamento di una convivenza sociale deve essere operato dalla legittima autorità secondo giustizia per il bene comune e la promozione della persona. La virtù della giustizia integra il diritto nella dimensione etica, ma la sua applicazione rimane nelle mani di uomini fallibili, quand’anche si tratti di legittima autorità. Quanto è infinitamente lontana la giustizia umana dalle esigenze del diritto divino e, quindi, dalla giustizia divina? O dai principi universali che riconoscono e tutelano la dignità della persona umana?
Quando ci troviamo di fronte al diritto divino e alla protezione che egli estende alla creatura umana nel renderla partecipe di tali diritti, la cautela del giudice deve essere la norma per eccellenza. E’ nota la massima di presunzione d’innocenza “in dubio pro reo”. Per questo il Card. Parolin nella sua omelia concludeva con queste parole: “sappiamo bene che quella umana è una giustizia parziale e fallibile”. Da ciò la “doverosa cautela da parte degli operatori della giustizia e, in primo luogo, dei giudici”.