di Francesco Vermigli • Quando – alla sera di quel memorabile mercoledì 13 marzo 2013 – dalla Loggia delle benedizioni della Basilica di San Pietro in Vaticano apparve la figura tutta bianca di un papa gesuita giunto dall’altro capo del mondo, non pochi pensarono che il nome che il neo-eletto si era imposto, fosse un omaggio ad uno dei primi compagni di sant’Ignazio. E anche se ben presto si capì che l’ispirazione Bergoglio l’aveva presa piuttosto dal Poverello d’Assisi, l’ammissione dichiarata più volte di aver desiderato – fino alla richiesta esplicita fatta ad Arrupe, l’allora generale della Compagnia – di recarsi missionario sino all’estremo lembo orientale dell’orbe, in qualche modo collega papa Francesco a questa figura austera dei primi passi dell’avventura gesuitica.
Quando pensiamo al santo navarro, sentiamo il gusto per quella stagione epica della missione cattolica: quel tempo in cui le nuove scoperte geografiche e le nuove possibilità di comunicazione tra i continenti dettero alla Chiesa l’opportunità di dilatarsi, per raggiungere con il messaggio della salvezza gli estremi confini della terra e le popolazioni più lontane. Quando pensiamo a san Francesco Saverio, la nostra mente va al padre Gabriel e al Rodrigo Mendoza di Mission, il film che tanta fortuna ha avuto nell’evocare il periodo della Chiesa missionaria tra ‘500 e ‘600: fatte salve le differenze geografiche e culturali tra l’America delle reducciones e il crogiuolo di culture e lingue dell’Estremo Oriente, è quel medesimo mondo di grandi privazioni e di annunci evangelici, di natura incontaminata e di popolazioni ostili che suscita quest’analogia. Quando pensiamo al santo proclamato patrono delle missioni nel 1927, forse ci verrà anche in mente quel brano paolino che latinamente recita caritas Christi urget nos; non fosse altro che per il fatto che egli è detto, e ci pare a buon diritto, “il san Paolo delle Indie”.
Perché l’impressione che si ha quando si legge la sua biografia o alcune pagine dei suoi scritti è di aver a che fare con un missionario che dell’Apostolo delle genti riproduce lo zelo per il Vangelo di Cristo, l’urgenza perché esso venga fatto conoscere a tutte le popolazioni del mondo. Ha un che di eroico pensare che a lui e al pugno dei suoi pochissimi compagni il papa Farnese Paolo III avesse dato il titolo di propri legati per tutte le terre situate ad oriente del Capo di Buona Speranza. E stupisce vederli attraversare gli oceani, sbarcando – dopo oltre un anno dalla loro partenza – a Goa, colonia portoghese sulla costa occidentale del sub-continente indiano. Il tono della missione di san Francesco Saverio è il tono della radicalità evangelica; sulle orme di quel Paolo che diceva di considerare tutto spazzatura, al confronto di Cristo e del suo Vangelo.
Ma egli è anche il missionario che si direbbe rappresentare al meglio l’epoca della Riforma cattolica: mentre Francesco Saverio predicava – insegnando agli umili pescatori indiani o alla piccola aristocrazia giapponese la dottrina cristiana, con gli strumenti semplici ma solidi della preghiera e del canto – la Chiesa cattolica si riuniva in concilio in una città alpina; alla ricerca del modo migliore con il quale approfondire e sistemare i propri dogmi, sotto la pressione delle critiche e delle obiezioni protestanti.
Che cosa resta di quella stagione gloriosa della missione cristiana in Estremo Oriente? Resta innanzitutto il senso della sintonia tra la prossimità che è richiesta alla Chiesa nei confronti dell’uomo di ogni etnia, e il messaggio cristiano; messaggio di liberazione integralmente umana. Resta l’esempio di una santità eroica e infaticabile, capace di riconoscere priorità al kerigma cristologico; rispetto ad ogni altra cosa che la comunità dei credenti in Gesù di Nazareth possa offrire al mondo.
Della missione di Francesco Saverio resta, soprattutto, uno sguardo aperto e appassionato per le sterminate possibilità umane che offre l’Asia, in modo particolare l’Estremo Oriente. Ancora oggi, alla vista della Chiesa si mostrano la complessità del sub-continente indiano, vero coacervo di etnie, religioni e dialetti; la vastità disarmante della Cina comunista (o post-comunista?); la cultura nipponica, connotata da una storia di grande tradizione e dignità.
Ci chiediamo: il primo compagno di Ignazio è in grado di dare indicazioni sul modo corretto con il quale la Chiesa può efficacemente entrare in dialogo con il vastissimo continente asiatico e in particolare con le potenzialità culturali e ideali dell’Estremo Oriente? Sembra ci sia un insegnamento cruciale per la Chiesa di oggi, che discende direttamente dallo stile missionario di Francesco Saverio: la vita del gesuita – morto sull’isola cinese di Sancian il 3 dicembre 1552 – reca con sé il messaggio che non esistono popolazioni alle quali sia precluso l’annuncio della Buona Novella; la certezza che non esistono popoli che non possano trovare in Cristo e nel suo Vangelo la propria più radicale e profonda realizzazione spirituale.