La teologia e i suoi rischi

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2016-06-28_163223di Francesco Vermigli • In un film di una decina d’anni fa, il protagonista – nei tratti pareva il Nazareno – è un giovane professore dell’Università di Bologna che abbandona l’insegnamento, con un gesto carico di significato: la crocifissione di cento vecchi libri della biblioteca. Fugge dalla città e la sua fuga è un ritorno alla simbiosi con la natura e alle piccole cose e alle persone semplici; ogni tanto la vita ordinaria vissuta lungo il grande fiume si infarcisce, però, di piccole arringhe – dal tono profetico e, in verità, spesso un po’ pedante – del tipo: “Dio non parla con i libri. I libri servono qualsiasi padrone e qualsiasi dio” (Centochiodi, 2007).

Ne fosse o meno cosciente il regista (Ermanno Olmi), queste parole ben rappresentano, ci pare, il modo con cui la società di oggi spesso si atteggia nei confronti della teologia. È un’accusa che si può ascoltare in ogni dove: quel che conta è l’esperienza della fede, il vissuto delle persone che pregano e vivono la fede; la teologia è una perdita di tempo, la teologia ha un che di superbo; la teologia – dicono alcuni – se si intende bene, è inutile. Figli della cultura del fare e del pragmatismo – inteso come atteggiamento della vita, non tanto come nobile variante filosofica – gli uomini del nostro tempo in buona sostanza non colgono quale sia la ragione dell’esistenza di una disciplina, che nientemeno pretenda discutere di Dio.

A ben vedere, tali accuse individuano un pericolo reale in cui può incorrere la teologia, un rischio non piccolo che sempre s’accovaccia sornione alla porta della ricerca: il pericolo dell’astrattezza, il pericolo di una teologia che voli al di sopra dei problemi della gente che spera e che crede, il rischio della torre d’avorio; il rischio dei “bizantinismi” (ma la teologia bizantina fu davvero così “bizantinistica”?), quei sofismi, cioè, che affaticano la mente e raffreddano il cuore. Eppure, dietro queste dichiarazioni fatte in maniera più o meno esplicita si nasconde un pericolo che si direbbe inverso: quello della mondanizzazione della stessa teologia. Dietro quell’idea – secondo la quale o una disciplina, un pensiero serve a qualcosa di concreto o non serve per nulla – si nasconde la tendenza a piegare il discorso su Dio ai bisogni transitori del mondo. Anzi – per riprendere una frase che si fa risalire a Napoleone – la teologia nella vita della Chiesa assomiglia spesso all’intendenza, che “dopo seguirà”: cioè prima si fa qualcosa, poi – se la teologia vuole, ma in fondo non interessa un granché – essa giustificherà la cosa. Eppure, è lo stesso significato della parola che chiede che non si cada in un tale tranello: se è discorso su Dio, la teologia non potrà farsi discorso come tutti gli altri, cioè non si potrà considerare legittimata ad esistere solo in tanto in quanto funzionale nell’immediato.

Come si esce da questa impasse? Come ci si muove tra il pericolo dell’astrattezza e quello della mondanizzazione della teologia? È noto che nella tradizione greca v’è abitualmente la distinzione tra quella che si chiama “teologia prima” e quella che si dice “teologia seconda”: se la categoria di “teologia seconda” si può considerare l’elaborazione teologica per come la intendiamo noi, l’altra teologia – quella, cioè, che rivendica un primato assiologico – è nell’ottica orientale la cosa più inutile che ci sia per una mentalità mondana, cioè la liturgia. Sulla “santa inutilità” del rito hanno ancora molto da insegnarci le pagine di Guardini sulla “liturgia come gioco”, ad indicare il carattere debordante della liturgia rispetto alla sola finalità pratica.

Forse una risposta alla domanda sul destino della teologia la troviamo nelle parole di saluto che papa Francesco ha rivolto a Benedetto XVI pochi giorni fa, in occasione del sessantacinquesimo anniversario dell’ordinazione presbiterale di Ratzinger. Trattando dei momenti più significativi della vita del suo predecessore, ha sottolineato l’impegno nell’insegnamento teologico, in ragione del fatto che per Ratzinger la teologia è stata “ricerca dell’amato”; la quale definizione appare ben lontana dalle aride astrattezze, in cui viene accusato di cadere il discorso su Dio. Nella sezione dei suoi Esercizi spirituali dedicata alla contemplatio ad amorem Ignazio di Loyola antepone ad ogni altra osservazione quella secondo la quale «l’amore si deve porre più nei fatti che nelle parole» (EESS 230). Se la teologia custodisce quest’idea grande di se stessa, che cioè essa non è altro che la ricerca continua di Dio – quaerere Deum, per usare un’altra immagine cara a Ratzinger – terrà assieme il pensiero e la prassi.

Nella tradizione della Chiesa tutto ciò, a ben vedere, è stato sempre custodito. Ogni definizione e ogni autentica riflessione teologica sono sempre partite dall’idea che quello che viene definito o quello su cui si discute è sempre pensato in vista di un obiettivo; si direbbe che serve sempre a qualcosa: in modo particolare, dogma e teologia servono a parlare del Dio che si mostra per la salvezza dell’uomo. Così facendo, allora, l’autentica teologia si è posta e continuerà sempre a porsi al servizio della soteriologia.

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Francesco Vermigli

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