di Dario Chiapetti • Anche la Chiesa è entrata nel mondo dei selfie. Anzi, si potrebbe in un certo senso dire che tale moda sia stata lanciata proprio da lei, anticipandone l’esplosione di ben circa quarant’anni, ovvero dal Concilio Vaticano II. È quanto ad esempio si constatò in un’intervista a tutto campo al card. Georges Cottier (1922-2016) pubblicata, per l’appunto, col titolo Selfie. Dialogo con il teologo di tre papi.
Il fenomeno-selfie rivela significati profondi. Innanzitutto esso ha per oggetto la fotografia, il dare immagine ad immagini. La Chiesa per sua natura, “unica complessa realtà divino-umana” (cf Lumen Gentium 8b), possiede un’immagine e tende a dare immagine di sé. Ed essendo il selfie un fenomeno proprio dei social network, esso intende immortalare l’immagine e condividerla. È poi proprio del selfie il carattere di autoscatto, esattamente come quell’attività di autoriflessione della Chiesa, soprattutto dal Concilio in poi. Non solo la Chiesa ha voluto riflettere su sé ma ha voluto farlo a partire anche dalla relazione con l’altro, condividendo con questi il suo essere – per l’appunto di servizio – e così chiamarlo ad una più autentica relazione. Certo, nel selfie è il soggetto che sceglie cosa mostrare, quando e a chi, ci può essere poi autocompiacimento, compulsività, tendenza ad autovalutarsi e valutare gli “amici” in base ai “like” ricevuti e messi. Ma anche tutto ciò rivela chi siamo.
Se il selfie è una valida pista di conoscenza, quelli “postati” da Cottier, discepolo del grande ecclesiologo Charles Journet e teologo della casa pontificia dal 1990, testimone, in quanto protagonista, del corso ecclesiale dal Concilio in poi, risultano essere particolarmente eloquenti.
A ben osservare i selfie ci si può accorgere come il filo rosso che li accomuna è rintracciabile in questa acuta affermazione di Cottier: “Il catechismo della Chiesa Cattolica è Concilio, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI sono Concilio, questo papa Francesco è Concilio, e tante cose sono cambiate”. Con queste parole il porporato dice l’essenza della Chiesa come quella convocatio et congregatio in unum che riflette su se stessa a partire dalle istanze che la informano costantemente, il Vangelo e la realtà umana, si lascia interrogare da esse e cerca di rispondere ai loro bisogni. E ciò attraverso il dialogo. Nota è la profezia di Paolo VI in Ecclesiam Suam – documento che per Cottier rappresenta “l’espressione dell’essenza del concilio stesso” – al n. 67: “la Chiesa si fa dialogo”.
“Prima del Concilio – osserva il domenicano – la tendenza prevalente era insistere sull’identità cattolica che di fatto è una cosa essenziale, ma si insisteva soprattutto sulle opposizioni e spesso con toni inutilmente polemici. L’ispirazione profonda del dialogo autentico invece è rispettare il cammino spirituale dell’altro e cercare i punti di contatto per tentare un cammino insieme”. L’altro e il dialogo con esso non è un optional ma fa parte del movimento d’uscita della Chiesa per portare e sperimentare l’amore di Dio in Cristo Gesù, che la costituisce. Ciò è spiegato quando, ad esempio, a proposito della questione della desacralizzazione della figura del pontefice, nel discorso più ampio circa la nozione di Tradizione secondo il dettato conciliare “Ecclesia semper reformanda“, il porporato afferma che “una certa semplicità oggi parla meglio che l’eccessiva ricchezza dei paramenti […] Conta che il papa appaia come messaggero del Vangelo e non come un potente della storia”.
Solo entro un contatto così vitale con l’altro la Chiesa potrà ritrovare e approfondire i contenuti di fede che ha espresso e su cui si è fondata in passato la cosiddetta societas christiana. Afferma infatti Cottier: “anche i simboli, i valori che dipendono dal messaggio della fede perdono il vero senso se non c’è più la fede che li ha ispirati. Penso alla diatriba sul togliere o lasciare il crocifisso nelle scuole. La Chiesa l’ha difeso come simbolo culturale: aveva ragione, la croce è anche un simbolo, ma bisogna andare a fondo della questione”: a ben guardare, esso indica proprio impotenza, amore all’altro fino alla spoliazione di sé e in ciò il simbolo manifesta significato e credibilità. Nel recupero del significato teologico della “stoltezza” (cf 1Cor 1,21) dell’agire di Dio e nell’inserimento nella logica relazionale sottesa la Chiesa realizza quel cristianesimo conformato e conformante a Cristo. E tale processo può avvenire attraverso quella che papa Francesco chiama “conversione pastorale”, che – per riprendere le parole di Cottier in un’altra intervista, alla Civiltà Cattolica – è basata sull’assunto “la misericordia è dottrina” e connessa alla “morale della prudenza che applica in maniera esistenziale il giudizio retto al dinamismo affettivo che essa orienta”, tratteggiata da san Tommaso e alla base della prospettiva della recente esortazione di Francesco Amoris Laetitia. Tale conversione è l’atto teologico supremo che la Chiesa possa porre, manifestazione del suo volto di Chiesa-Concilio: la Chiesa che si raduna e si interroga, si accompagna, si fa accompagnare e accompagna.