di Gianni Cioli • Nella Costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina del 1967 Paolo VI offre una definizione di “indulgenza”, del tutto in linea con la tradizione, che forse è opportuno considerare per ricordare uno degli aspetti imprescindibili, anche se meno facili da comprendere, del Giubileo: «L’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, autoritativamente dispensa ed applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi» (Norme n. 1).
Tenendo presente il documento del Papa e volendo andare all’essenziale, per cercare di capire come si possa proporre in maniera plausibile, oggi, la pratica delle indulgenze, potremmo dire che sono due i presupposti chiave da tenere presenti.
Il primo presupposto consiste nella distinzione fra colpa e pena. Tale distinzione può forse essere comprensibile se si prende coscienza del sacrificio e della sofferenza che il cammino di conversione autentico comporta per battezzato peccatore. Tale cammino non è semplicemente un avvenimento puntuale che si esaurisce nella coscienza che Dio ha perdonato la mia colpa quando ho ricevuto l’assoluzione sacramentale, ma è un processo faticoso che impegna la vita… e la vita può anche non bastare come insegna la dottrina sul purgatorio. Ogni atto che noi compiamo ha, per così dire, una forza centrifuga e una forza centripeta. La forza centrifuga è la storia delle conseguenze che il nostro agire comporta per vita degli altri. La forza centripeta è invece la ripercussione che tale agire produce nel nostro intimo, condizionando le nostre facoltà interiori. Sulla base di questi presupposti si comprende come il peccato, anche dopo il perdono sacramentale, necessiti di essere riparato sia, per quanto possibile, in ordine alle sue conseguenze “centrifughe”, sia in ordine alle sue conseguenze “centripete”. Il significato della pena temporale del peccato, distinta dalla colpa, può essere compreso e valorizzato a partire dalla considerazione di questo doppio versante delle conseguenze di tutto ciò che noi compiamo. Ma si possono fare anche ulteriori considerazioni. Il senso della vita cristiana è la carità: il sentirsi amati da Dio e lo scoprirsi capaci di riamarlo. Questo senso può tuttavia trovarsi, per così dire, velato dal peccato fino ad essere, purtroppo, anche perso di vista. Ma se si perde di vista il senso della vita, la vita stessa finisce con l’apparire assurda e insopportabile. L’impressione che la vita possa essere assurda può diventare, a sua volta, causa di peccato. Si può peccare fuggendo dalle proprie responsabilità, perché non si è sostenuti dall’amore; si può cercare nel peccato la compensazione al senso di vuoto con la ricerca del piacere, ad es. nel cibo, nel sesso, nel possesso, nella considerazione che si vorrebbe avere da parte degli altri e nel ripiegamento narcisistico su se stessi. Lo scopo della penitenza cristiana è quello di interrompere questo circolo vizioso del peccato e di rimuovere, a poco a poco, guidati e sostenuti dalla grazia, il velo che ci impedisce di vedere la bellezza dell’amore di Dio. Questa penitenza, come ha messo efficacemente in luce Paolo VI nella Paenitemini, consisterà innanzitutto nell’accettare la vita così com’è, con le sue responsabilità e con il suo inevitabile carico di croce, ma potrà consistere anche nella determinazione di precise rinunce terapeutiche in quegli ambiti di vita che il peccato tende, come si è visto, ad inquinare. La penitenza allora può essere compresa come la ricerca instancabile che il cristiano compie per ritrovare sempre più profondamente l’amore di Dio. La consapevolezza della necessità di questo cammino di conversione è il primo presupposto per comprendere il senso delle indulgenze.
Il secondo presupposto è dato invece dalla certezza che, in questo cammino di conversione, la persona non si trova sola: in Cristo s’instaura tra i fedeli uno scambio di doni spirituali in forza del quale la santità dell’uno giova agli altri. Il “tesoro della Chiesa” è l’espressione, coniata e usata dalla tradizione, per dire la ricchezza della santità di Cristo, delle preghiere e delle buone opere della Vergine e dei santi; ricchezza dalla quale il fedele attinge senso e valore con cui nobilitare il suo umile gesto, quale può essere un pellegrinaggio o una preghiera, facendo sì che tale gesto possa diventare, effettivamente, veicolo di carità: occasione per recuperare quell’amore di Dio, quel sentirsi amati da lui e quello scoprirsi capaci di riamarlo, che è il significato della vita cristiana.
Come emerge bene nella Indulgentiarum doctrina di Paolo VI, le indulgenze non vogliono assolutamente costituire una scorciatoia meccanica che banalizza il senso della conversione cristiana. Al contrario esse possono concretizzare la via di chi è consapevole della necessità di fare penitenza e si rende al tempo stesso conto che la sua penitenza non basta, per questo accetta volentieri il sostegno della Chiesa. Se ben comprese le indulgenze possono mettere a fuoco la condizione di chi desidera veramente amare Dio e tuttavia si accorge di non riuscire ad amarlo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze e, per questo, si abbandona alla sua misericordia in un atteggiamento fiducioso e privo di pretese. L’atteggiamento di chi vuole dare comunque tutto al Signore, pur sapendo che non gli si può dare niente; si può soltanto ricevere da lui. Tale atteggiamento potrebbe trovare la propria icona nel gesto di colui che un giorno consegnò al Maestro cinque pani e due pesci: evidentemente troppo pochi per l’impotenza umana; logicamente troppi per l’onnipotenza di Dio. Prese sul serio le indulgenze sono un fatto paradossale, ma proprio per questo, nella logica della fede, sono un fatto “credibile”.
C’è una frase attribuita a s. Ignazio di Loyola che mette bene in evidenza la dimensione paradossale dell’esistenza cristiana: «Impegnati in tanto come se tutto dipendesse da Dio, ma abbi fiducia in Dio come se tutto dipendesse da te». Tale affermazione, che si riferisce alla venuta del Regno di Dio, può forse adattarsi bene anche per caratterizzare il cammino penitenziale del cristiano e della Chiesa e per illuminare il paradosso delle indulgenze all’interno di tale cammino (L’affermazione è riportata da C. Huber [Prefazione, in R. Ottone, Il tragico come domanda. Una chiave di volta della cultura occidentale, Milano 1998] e sembra essere più originale e più paradossale rispetto all’altra generalmente riferita ad Ignazio: «Impegnati come se tutto dipendesse da te, ma abbi fiducia in Dio come se tutto dipendesse da Lui»).