di Antonio Lovascio • Sullo sfondo di un edificante “Giubileo della Misericordia”, non so cosa pensino gli italiani del processo sulla sottrazione e divulgazione di documenti riservati del Vaticano (Vatileaks 2). In attesa che dalle prossime udienze e dagli interrogatori del Tribunale dello Stato Pontificio emerga tutta la verità, la pausa concessa dal presidente Giuseppe della Torre per le perizie informatiche ci consente di ragionare più a fondo su alcuni aspetti di questa vicenda. In particolare su quelli attinenti l’etica della comunicazione, il rispetto di quelle norme che costituiscono la radice comune delle culture democratiche liberali; che riguarda anche i confini del cosiddetto “diritto di cronaca”, il quale non deve mai calpestare i diritti degli altri. Se non mi fosse stato a cuore, non avrei difeso cosi strenuamente il segreto professionale, al punto tale da essere sottoposto a giudizio nel dicembre 1977 (gli atti furono poi inviati dal Pretore alla Corte Costituzionale, che diede un’interpretazione favorevole alla mia causa) per aver raccontato su “Avvenire” una triste storia di tangenti alla politica, conclusasi con arresti tra Firenze e Scandicci ed esemplari condanne.
“Diritto” – quello della libertà d’informazione – ora invocato dall’Ordine nazionale dei giornalisti in favore di Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fitipaldi, incriminati per la diffusione dei “leaks” attraverso libri, insieme a Francesca Chaouqui, monsignor Lucio Angel Vallejo Balda e Nicola Maio. Mi pare che a questa “rivendicazione” di principio abbia ben risposto;”> il Sostituto della Segreteria di Stato monsignor Angelo Becciu, in una intervista alla Radio Vaticana: <I giornalisti hanno tutto il diritto di diffondere le notizie che ricevono, casomai vi sono dubbi sul metodo, sul modo con cui hanno ricevuto le notizie! C’e’ un processo in corso e chiarirà questi dubbi>. Dimostrerà se c’è stato un concorso di colpe con i tre principali protagonisti, che sono venuti meno alla fiducia in loro riposta dal Papa ed anche all’impegno, che avevano assunto con il giuramento, di tener segrete le carte che avrebbero preso in mano, quando hanno accettato di far parte della disciolta Commissione insediata da Bergoglio all’ inizio del suo pontificato, perché riferisse sullo stato delle strutture economiche e amministrative del Vaticano.
Ora l’accusa loro rivolta dal Promotore di Giustizia è di aver dato vita ad una sorta di “sodalizio criminale”, sul quale giornali e televisioni stanno evidenziando, oltre allo scambio di accuse e invettive, gli squallidi rapporti tra il prelato spagnolo infedele alla Chiesa e la sventurata Pr assurta ad un ruolo sicuramente troppo più grande di lei. Ingredienti somministrati ad arte, per suscitare quella morbosità che sempre accompagna le questioni ecclesiastiche e che porta spesso ad evocare, per un’invincibile attrazione, le ombre del passato e i peccati del presente, le tentazioni sessuali, l’amore per il denaro e per il potere.
C’era un piano per delegittimare il Pontefice e la sua Riforma contro le “malattie della Curia”? Bergoglio per primo, ammettendo errori nelle nomine, si è espresso in modo a dir poco lapidario e coraggioso: “Rubare quei documenti riservati è un reato, e va punito”. Aggiungendo (con ironia ha perfino richiamato i tempi di Lucrezia Borgia… ) che pure in Vaticano occorre combattere contro la corruzione: l’opera di pulizia e purificazione – iniziata già con Benedetto XVI – quindi proseguirà, e lui stesso non si fermerà di fronte agli ostacoli.
Tirerà dritto, il Papa, nella riforma della Curia. Ma pare non l’abbia ancora capito qualche editorialista anticlericale, cui vengono le orticarie solo a sentir parlare di “morale” e deontologia. Quasi fosse ispirato da Dan Brown, ha accreditato una tesi principale del tutto priva di fondamento: così in un vortice di vendette, ricatti e tradimenti, la libertà di stampa è finita nel gorgo delle peggiori malvagità. Come ha detto monsignor Becciu ed hanno sottolineato autorevoli giuristi (Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale, in alcune interviste, e Carlo Cardia su “Avvenire”) in Vaticano non è invece sotto accusa “la libertà di stampa”, per il semplice motivo che agli interessati si imputa il trafugamento e la rivelazione di documenti riservati. Il reato (non contemplato con la stessa formulazione dall’Ordinamento italiano) è previsto dalla legislazione vaticana dal luglio 2013. L’art. 116 bis punisce infatti chi “ruba” e divulga materiale segreto, mettendo a rischio interessi fondamentali della Santa Sede. Fa perciò scattare, a protezione del Vaticano (già scottato dalle vicende del “Vatileaks 1” ) una tutela rafforzata per interessi considerati vitali. Ed è proprio questa norma che porta Carlo Federico Grosso (ex vice presidente del Csm e docente di diritto penale nell’Università di Torino) ad ammettere che “se i due giornalisti hanno sollecitato inoltro e rilevazione di documenti riservati, potrebbe configurarsi un concorso nel reato contestato a Francesca Chaouqui e mons. Vallejo Balda, anche se è molto difficile da provare”.
Dunque i quesiti sottoposti alle toghe ecclesiastiche sono ben chiari: i giudici dovranno insomma dire se questi dossier siano stati acquisiti in maniera corretta; se siano cose provenienti da reato, se ci sia stata una partecipazione dei giornalisti alla loro sottrazione illegale; se eventualmente ci sia stata ricettazione. Questo può essersi verificato; allora si tratterebbe di un reato probabilmente commesso in territorio italiano, anche se i problemi di territorialità si pongono in maniera diversa. Sarà vero o non vero? Nessuno è ancora in grado di saperlo con sicurezza, anche per le versioni contrastanti degli imputati. Il dibattimento serve proprio ad accertare il fondamento delle tesi dell’accusa. Il Tribunale si pronuncerà dopo aver garantito il giusto contraddittorio tra le parti,ciascuna delle quali presenterà prove a discolpa.
Certo, se le azioni denunciate costituiscono reato verranno punite. Ma per questo non si potrà parlare di una limitazione al giornalismo di inchiesta, che comunque ha aspetti positivi quando fa emergere criticità che sicuramente ci sono. Ed a chi, pure dal fronte dei giuristi, ha richiamato l’articolo 21 e 51 della nostra Costituzione (introdotti per tutelare la libertà di stampa e il giornalista che esercita il diritto di cronaca) mi pare abbia risposto in modo esauriente il prof. Cesare Mirabelli : < Si invocano due norme costituzionali italiane. E tuttavia, gli stessi principi di libertà di manifestazione del pensiero e di informazione sono autonomamente presenti nell’Ordinamento vaticano: non si può fare certamente riferimento ad articoli della Costituzione italiana, ma è garantita la libertà di espressione anche nello Stato della Città del Vaticano, in base a principi propri. Questo non significa che, appunto, non vi possa essere una sanzione penale quando si ha un uso inappropriato della libertà: ad esempio, se nella stampa offendo l’onore di altre persone o pubblico notizie del tutto calunniose, certamente sono perseguibile penalmente. Allora siamo al di fuori dell’esercizio della libertà di stampa e di opinione> .
A sentire alcuni commentatori dissertare ancora di oscurantismo e inquisizione, o definire il Vaticano “l’ultima monarchia assoluta del mondo”, sembra che in quel territorio si usi il diritto medievale, mentre invece si utilizza con qualche calibrato aggiornamento (l’ultimo appunto è del luglio 2013) il Codice Zanardelli dell’Italia liberale che precedeva il Fascismo, con tutte le garanzie che vi sono previste. Oltretevere vige un sistema giudiziario del tutto autonomo e separato da quello italiano (che non è un modello di modernità!), dotato di propri organi giudiziari per i diversi gradi di giudizio e della necessaria legislazione in materia penale e di procedura penale. Un sistema comunque in grado di assicurare il corretto svolgimento di un processo che, per diverse ragioni, attira l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Con un “valore aggiunto” alla competenza e alla professionalità dei giudici: la Misericordia di Dio.