di Mario Alexis Portella • C’è un proverbio africano che dice: fino a quando il leone è proprietà degli storici, la storia della caccia appartiene sempre al cacciatore. In altre parole, la storia molto spesso è un fatto, narrato e interpretato dal potere dominante, o dai vincitori del momento, in un modo che più si adatta alle loro esigenze e meglio glorifica le loro gesta.Guglielmo Massaja è probabilmente uno dei più fraintesi missionari cattolici dei tempi moderni. Su di lui sono state espresse valutazioni, sulla base di pregiudizi, ingiusti ed immeritati. Egli è stato accusato di disprezzo verso la popolazione indigena perché avrebbe cercato di eliminare il rito Ghe’ez durante i suoi 35 anni di missione in Abissinia, incoraggiando, di conseguenza, la colonizzazione italiana dell’Eritrea a partire dal 1890, e spianando così la strada all’invasione dell’Etiopia del 1935. Queste tesi tanto offensive quanto superficiali ed erronee hanno letteralmente “sepolto” la sua eccezionale testimonianza di carità cristiana e sacrificio personale verso gli etiopi e gli eritrei. Tale mistificazione storica è stata anche utilizzata strumentalmente da Benito Mussolini per la sua propaganda tesa a giustificare l’invasione dell’Etiopia.
Nei suoi 35 anni di missione Mons. Massaja, come Vicario degli Oromo, con vigile prudenza incoraggiò gli indigeni cristiani a custodire i loro antichi valori religiosi e culturali e promosse i rapporti diplomatici tra Abissini e Italiani. La portata del suo ministero si evidenzia anche nel sostegno offerto all’unità tra ortodossi e cattolici, come attesta la sua documentata proposta Progetti di protezione e di dimora per i pellegrini abissini a Gerusalemme del 21 febbraio 1851. In questo testo, il Massaja affermava che sarebbe stata auspicabile creare a Gerusalemme una sede per accogliere i pellegrini abissini che ogni anno affluivano per venerare i luoghi santi, perché, col tempo, tale iniziativa avrebbe potuto diventare un mezzo assai efficace per realizzare la riconciliazione tra gli Abissini e la Chiesa Cattolica e la civiltà europea. In realtà, anche dopo il suo definitivo esilio dall’Abissinia (1879), continuò i suoi sforzi diplomatici a difesa di Etiopi ed Eritrei, ad es., quando spese molte delle sue energie affinché l’Ospizio di S. Stefano degli Abissini a Roma (dentro la Città del Vaticano) – monastero che dal 16° sec. ospitava pellegrini e monaci ortodossi – non venisse trasferito in un altro edificio di proprietà del governo italiano, che intendeva confiscarlo illegalmente.
Al suo arrivo in Etiopia, il missionario capì che avrebbe dovuto confrontarsi con un popolo profondamente ed esclusivamente legato alla propria tradizione religiosa. Va inoltre sottolineato che Mons. Massaja, nell’affrontare una forte opposizione in regioni controllate dalla Chiesa ortodossa, era sempre costretto ad operare in incognito e ad astenersi dal compiere le sue funzioni sacerdotali in pubblico.
Come i santi monaci della tarda antichità della società di Aksum, anch’egli fu un missionario itinerante: si recava da un luogo all’altro a piedi scalzi, non di rado attraverso terreni rocciosi o ricoperti di spine pungenti e si trovò a dover dormire di notte nel deserto, tra due fuochi, per proteggersi dagli animali selvatici. Mons. Massaja imparò la lingua indigena in modo da essere il più vicino possibile al popolo. A volte viaggiava in incognito, travestito da commerciante così da poter acquistare schiavi indigeni al fine di rendere loro la libertà. Una delle caratteristiche distintive di questo uomo santo fu che, come gl’infermieri professionali in un mondo privo di ospedali e medici, egli divenne effettivamente il solo medico che potesse prestare l’aiuto necessario per guarire gli indigeni affetti da malattie contagiose. Quest’opera più di una volta gli è quasi costata la vita.
Massaja e dintorni degli Oromo (Galla)
Durante l’epoca Zamana Masfint o epoca dei Principi, il potere degli Amhara e dei Tigrini fu indebolito e minacciato dagli Oromo, ma i capi e le popolazioni di queste due regioni cercarono di ripristinare e rafforzare la stabilità del regno cristiano, e, in unione con la Chiesa, combatterono compatti i Galla pagani. Pur avendo conquistato territori a sud dei laghi del Rift Valley e cacciato dal loro territorio o incorporato i popoli Amhara e Agau, i Galla erano oltremodo divisi. Dal 18° secolo, gli imperatori etiopi ci cominciarono a contare sempre di più sulle truppe Galla, curando che lentamente i loro capi sostituissero nella corte la nobiltà del Tigrai e Amhara. La corte imperiale, quando si installò al Gondar (nord-ovest), e quindi venne dominata dalla mentalità dei Galla, le cui figlie gli imperatori avevano sposato, non rappresentò più il cristiano semitico-etiope e non fu più in grado di fornire il tessuto connettivo del paese. Tuttavia, anche se intorno alla metà del Settecento i fattori che in precedenza dividevano il paese avevano trionfato, i Galla non riuscirono ad assumere il potere assoluto a causa della mancanza di una unificazione “ideologica”.
Socialmente e politicamente gli Oromo si basavano su di un raffinato sistema di organizzazione sociale. La classe dirigente aveva i poteri di unico organo esecutivo, in quanto il potere legislativo era esercitato dall’assemblea di ciascuna delle tribù confederate, i cui membri erano scelti dal popolo sulla base della loro idoneità. Dopo la loro migrazione verso il sud, gli Oromo abbandonarono questo tipo di organizzazione sociale a favore di un sistema monarchico, simile a quello in vigore tra le pre-esistenti popolazioni dei nuovi territori. Il risultato di questa trasformazione del sistema politico fu la costituzione nella prima metà del 19° secolo, di cinque nuovi regni in Galla. Le cinque regioni nella zona bagnata dal fiume Gibe erano Jimma, Gomma, Gumma, Ghera e Limmu-Ennaria; questo era l’esatto territorio in cui il Mons. Massaja fonderà le sue missioni principali.
Per quanto riguarda l’aspetto spirituale, gli Oromo trovarono nei nuovi territori tradizioni religiose non troppo diverse dalle loro, oltre alle religioni tipicamente africane; tra gli altri elementi fondanti ricordiamo l’esistenza di una divinità superiore e una serie di divinità inferiori; la presenza di spiriti buoni e cattivi residenti nei corsi d’acqua, in alberi secolari, e nelle vette delle montagne; i sacrifici di animali presieduti da sacerdoti; l’assenza di templi o raffigurazioni di divinità; il ruolo del sacerdote sciamano tribale invocava alcuni fenomeni naturali, ecc. Dopo la creazione di nuovi territori e dopo il contatto con i commercianti islamici, la classe dirigente Oromo adattò l’Islam al benessere politico ed economico della popolazione; alcuni piccoli gruppi di cristiani sopravvissero. Fu proprio questo complesso religioso e microcosmo diversificato a porre le sfide più impegnative a Massaja nella sua evangelizzazione.
Il coinvolgimento politico di Massaja
Il così detto coinvolgimento politico del Massaja si verificò, come sostiene Tewelde Beyene, nel periodo dello Scioa (18688 – 1879). Al suo ritorno da un breve soggiorno europeo dopo l’esilio, Massaja partì per lo Scioa (che in teoria era un territorio vassallo dell’Imperatore Yohannes IV), con lo scopo unificare le sue missioni del Sud. Egli fu di fatto costretto da Menelik II, re di questa provincia, a rimanere con lui come consigliere reale. È nel contesto dei rapporti fra il re dello Scioa, aspirante al trono imperiale, ed il governo italiano, che in qualche opera storiografica si accenna ad un presunto coinvolgimento di Mons. Massaja nell’espansione della politica coloniale italiana. Un anno prima dell’inizio del periodo Scioa, egli era in esilio, in attesa dell’autorizzazione di Menelik II a tornare nel suo paese per riprendere la sua attività. Con una lettera il re concesse al vescovo il passaggio per lo Scioa lungo la costa settentrionale del Mar Rosso, via Zeila, dove i nuovi missionari cappuccini, Taurino e Ferdinando, attendevano con ansia il suo ritorno in Abissinia.
È in questo periodo, soprattutto dopo che egli aveva acquistato armi da fuoco, che il ruolo di Massaja fu erroneamente interpretato, in quanto la sua azione appariva come una provocazione verso gli abissini ed i britannici. Il governatore di Zeila era il capo musulmano Abu Beker, un amico del re Menelik. L’8 agosto 1867 Massaja, desiderando chiarire alcune questioni, scrisse a Padre Domenic de Castelnaudary da Roma, dicendo:
“La famosa lettera che io aspettavo dal re dello Scioa è arrivata. Come il re mi aveva assicurato, egli mi ha dimostrato molto rispetto; io non voglio perdere l’occasione d’aprire la strada, tanto più che i due missionari, Padri Taurino e Ferdinando, hanno dovuto attendere per qualche tempo. Credo che si debbano sciogliere tutti i dubbi e partire al più presto… Quando ho lasciato Zeila, mi è stato chiesto da Abu Beker di accompagnar [lo e] acquistare per lui qualche arma da fuoco a doppia canna. Ho accettato un tale compito perché ho potuto chiedere così una notevole somma di denaro ad Abu Beker per l’intero costo del viaggio. [E] dato che aveva un numero illimitato di autorità doganali di frontiera, ho pensato che avrebbe potuto darmi un paio di centinaia di franchi”.
“Il governatore di Aden, credendo che io stessi per partire verso l’interno dell’Etiopia, mi ha proposto di unirmi ad una spedizione militare che ben presto sarebbe stata inviata in Abissinia. L’offerta era molto interessante soprattutto perché, presumendo che le truppe inglesi avessero sconfitto Tewodros (conoscendo io la loro consistenza politico-militare e quella del nemico), sarebbe stato più facile per me rientrare a Gojjiam nel Galla. Ma, dopo attenta riflessione, ho rifiutato l’offerta. Una guerra con gli stranieri, già di per sé odiosa ad una qualsiasi popolazione locale, lo è ancor di più in Africa, dove il sentimento di indipendenza promosso dagli Inglesi ha messo radici in quelle genti che preferirebbero essere dilaniate piuttosto che arrendersi. Io, dunque, unendomi agli inglesi, avrei dato l’impressione di stare dalla loro parte.”
“E, di conseguenza, dato che il mio stato di missionario cattolico era noto in tutta l’Abissinia, saremmo incorsi non solo io personalmente ma anche l’intera missione nell’odio di quelle popolazioni. Inoltre, il contatto avuto con Menelik ed i quasi-conclusi accordi con Abu Beker mi hanno legato tanto che non ero in grado di rompere i legami senza espormi personalmente a future molestie e rappresaglie. L’autorità britannica rimase convinta da questi motivi e comprese che il mio rifiuto era prudente. Gli inglesi dopo mi chiesero soltanto se avrei potuto portare nello Scioa alcune lettere della Regina Vittoria e dei suoi Ministri che davano a Menelik consigli e istruzioni segrete sulla guerra, cosa che ho accettato di fare”.
E’ interessante osservare che Tewodros, in questo momento ben determinato del suo potere imperiale sull’Etiopia, non era riuscito ad ottenere la tecnologia occidentale ed esperti europei necessari per costruire gli armamenti avanzati di cui il paese necessitava. Pertanto, l’imperatore costrinse i missionari europei, dopo averli imprigionati, a costruire cannoni ed altre armi. Tewodros riuscì, in tal modo, a procurarsi la più grande artiglieria di cannoni della storia etiopica.
L’opera monumentale di A. del Boca, Gli italiani in Africa orientale, ha dimostrato che la persona di Massaja come “precursore del colonialismo Italiano” è una mera invenzione della storiografia sulle campagne italiane in Etiopia. Il suo coinvolgimento fu molto limitato, perché rifiutò di diventare intermediario e sostenitore di un’aggressiva industria commerciale italiana in Eritrea. In realtà Massaja non avrebbe avuto alcun contatto con l’Italia fino al 1872, dopo l’unificazione italiana. La politica dello stesso stato italiano, la cui piena unità non si realizzò fino al 1879, ignorò del tutto l’Etiopia. Del Boca ha scritto che fino agli ultimi giorni del governo di unità nazionale, il governo di destra era totalmente assorbito da questioni interne, che erano molto più urgenti. L’Africa non interessava ancora alla politica italiana. Con il passaggio del potere dalla destra alla sinistra nel 1879 il governo si concentrò ancor di più sui suoi problemi di politica interna che sul suo programma di espansione.
È importante ricordare che fu il lazzarista Giuseppe Sapeto ad incoraggiare gli italiani a prendere immediatamente il controllo del Mar Rosso, e quindi ad esercitarlo in Abissinia per contrastare la dominazione britannica. L’apertura del Canale di Suez da parte dei francesi nel 1869 dette impulso alla colonizzazione italiana. Il Canale di Suez divenne il centro attrattivo del nuovo imperialismo europeo basato sull’esportazione di capitale, e gli inglesi ben presto riuscirono ad ottenerne il controllo. Dopo l’unificazione d’Italia nel 1861, una petizione fu presentata prima alla Camera dei Deputati, che incoraggiava l’Italia ad imporre una sua forte presenza nella regione del Mar Rosso. Nel febbraio 1863, al Sapeto, che aveva già abbandonato il suo ministero sacerdotale, per iniziare la carriera diplomatica “fu affidata dal Ministero dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio una missione in Egitto, al fine di valutare l’impatto che l’apertura del canale avrebbe potuto avere sull’economia nazionale”.
L’apertura del canale cambiò il Mar Rosso in una rilevante via marittima che collegava l’Europa con il Medio ed Estremo Oriente, senza dover più circumnavigare l’Africa. La nuova importanza strategica del Mar Rosso alimentò la concorrenza per il suo controllo tra gli inglesi ed i francesi. In pratica, la presenza politica di inglesi e francesi della regione si manifestò con “una forza in grado di esercitare una notevole influenza sulle strategie dei missionari italiani, che inevitabilmente furono portati a fare affidamento su queste potenze – e non sulla loro patria – per sostegno e protezione”. Sapeto, che intendeva mostrarsi fedele alla sua patria, “chiese all’Italia di stabilire una presenza ‘sulla rotta marittima’ e concluse nel novembre 1869 l’acquisto dal Sultano della Baia di Assab, nominalmente da parte della Compagnia Navale Rubattino, con l’assenso ed il danaro del governo italiano (8.000 talleri di Maria Teresa).” Quindi, per la prima volta, gli italiani non solo conseguirono un cospicuo interesse economico nel Mar Rosso, ma, furono spinti dalle circostanze a colonizzare l’Etiopia e l’Eritrea.
E’ anche importante ricordare che Mons. Massaja ebbe a confrontarsi con l’instabilità politica dello regione Scioa mentre cercava di ristabilire la piena comunione tra la Chiesa ortodossa e la Chiesa di Roma. Volendo egli dedicarsi esclusivamente al suo ministero pastorale, aveva capito che non aveva altra scelta che quella di contribuire a questa politica italiana per continuare la sua missione. Nel frattempo, Menelik, che si avvaleva in larga misura della sua consulenza religiosa e diplomatica, cercò anche il sostegno delle grandi potenze europee al fine di realizzare il suo sogno imperiale, e Massaja dovette costantemente affrontare l’oscillare della politica del giovane re dello Scioa. “Dopo la gioia ufficiale del suicido di Tewodros [nel 1868], e la proclamazione di un giorno festivo, Menelik, discutendo con Massaja, affermò che era addolorato per la morte dell’imperatore, che era stato come un secondo padre per lui. Sorpreso, Massaja gli chiese perché allora avesse ordinato la festa per celebrare la sconfitta e la morte di Tewodros. [Il re] rispose ‘per soddisfare i sentimenti della gente… fosse stato per me, avrei dovuto andare in un bosco a piangere’”.
Nel 1870/71, Menelik mandò una delegazione diplomatica al regno d’Italia. Il capo della delegazione era Abba Michael, imprenditore ambizioso e orditore di intrighi, che portò una lettera indirizzata a Vittorio Emanuele II, nonché una sintesi delle lettere firmate da Massaja. I due testi originali erano in amarico. A Massaja fu chiesto di tradurli ambedue e firmare il secondo. Il cappuccino prima cercò di dissuadere il re dal farsi coinvolgere in questi rapporti diplomatici, soprattutto perché non si fidava di Abba Michael. Benché riluttante, successivamente cedette perché irritato dall’aumento degli insulti degli italiani contro il papa durante le vicende militari del 20 settembre 1870, in cui gli Stati Pontifici vennero sottratti al pontefice. In tal modo, egli impiegò un’equa dose di prudenza nel testo da firmare.
Massaja scrisse a Emanuele II dicendo che era lieto che il governo italiano “stringesse relazioni con il popolo abissino”, e che “il regno dello Scioa era ancora il migliore di tutta l’Abissinia, poiché vi era là un po’ di tranquillità e d’ordine.” Concluse dicendo che, se il governo di Roma avesse sostenuto l’aspirazione di Menelik di instaurare un ragionevole rapporto tra Italia e Scioa, “con il tempo forse qualcosa di più solido si sarebbe potuto stabilire tra i due paesi.” In queste lettere non si fa menzione di una concessione di territorio o di qualsiasi altra concessione. Va inoltre sottolineato che molte delle lettere del Massaja venivano intercettate da massoni e anti-clericali, che a loro volta li pubblicavano in riviste italiane distorcendo le sue parole, facendolo apparire come un oppositore del papa di Roma e schierato con il re ed il partito liberale che aveva recentemente spogliato degli Stati Pontifici il Romano Pontefice. Non dobbiamo dimenticare che gli interessi italiani in Abissinia continuavano ad essere facilitati dall’accordo del Sapeto con il Sultano di Rahaita nel 1869 e, poi, nel 1879 e nel 1880. Questo accordo includeva il possesso da parte dell’Italia della Baia di Assab e, di conseguenza, le attività della Compagnia navale Rubattino, trasferite in quel territorio, significarono una colonizzazione italiana di fatto nel 1882. Avviata così la sua impresa coloniale in Africa, l’Italia concluse un patto di pace e amicizia con Mohamed Hanfire, Sultano di Assab, il 15 marzo 1883.
Nel 1879, il governo italiano, con Agostino de Pretis, che divenne sostenitore della Società Geografica Italiana e delle sue campagne di colonizzazione, sviluppò un approccio politico che richiedeva una maggiore apertura del commercio con l’Africa. Ben conoscendo l’accresciuta consistenza delle relazioni del Massaja con il Re dello Scioa, decise di promuovere il missionario al rango di Grande Ufficiale dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, e gli chiese di negoziare un trattato di amicizia e di commercio nominandolo delegato alla stesura del suddetto trattato. Fu una perdita di tempo perché Massaja era in esilio per volontà dell’imperatore Yohannes. Che cosa era successo? Nel corso del primo semestre del 1878, Menelik, nella sua marcia verso il trono imperiale, fu sconfitto da Yohannes, che impose alcune gravose condizioni per la riconciliazione, tra cui la resa dei delegati imperiali e l’espulsione di Massaja dall’Abissinia.
Nel suo consolidamento di uno stato cristiano sotto la Chiesa ortodossa, Yohannes “vietò ai missionari europei di operare in Etiopia, dicendo loro che l’Etiopia accettava solo S. Maria di Sion e gli insegnamenti di Gesù Cristo (“ኢ ትዮጵያ ከማርያም ጽዮን ሌላ ማናቸውንም ሃይማኖት አትቀበልም‘ libero dall’imperatore”).” Il Patriarca copto, Abune Salama fece di tutto per vietare ai missionari cattolici di svolgere il loro apostolato in Etiopia. Per esempio, dopo aver esiliato il Santo Giustino De Jacobis dal Gondar nel 1854, si recò a Mettema dove il Governatore ricevette una lettera in arabo da Salama: “Io, Abune Salama, ti invio De Jacobis; fa’ tutto il possibile per assicurarti che egli non fugga e non ritorni nel suo paese; imprigionalo, fa’ quello che più ti piace, segretamente fallo sparire in modo che non sia mai più visto.” Questo provvedimento, anche se era avvenuto precedentemente durante il regno di Tewodros, continuò sotto l’amministrazione di Yohannes. Quindi, il 35° anno dell’epoca di Massaja in Abissinia si concluse nell’ottobre del 1879.
In una battaglia contro il Mahdi, Yohannes, dopo essere stato ferito, nominò Ras Mengesha suo erede al trono. Dopo la sua morte, Mengesha non fu riconosciuto come figlio ed erede di Yohannes. Il Tigrai fu devastato dalle lotte dei vari membri della famiglia imperiale contro Mengesha e fra di loro. Menelik trasse vantaggio dal disordine del Tigrino, e, dopo che gli Italiani avevano occupato Hamasien (una regione che Yohannes IV aveva donato a Ras Alula), e fu proclamato imperatore di Etiopia con il nome di Menelik II. Menelik quando successe a Yohannes, raddoppiò letteralmente le dimensioni del territorio Etiopico sotto il suo controllo, comprese quelle aree che erano state occupate dai colonizzatori europei nella regione del nordest. Fu a causa di questa espansione che i semi cristiani piantati da Massaja si estesero contemporaneamente all’Abissinia, si estesero, insomma, a quella che infine sarebbe diventata la moderna Etiopia.
Il nuovo imperatore accettò di firmare il Trattato di Uccialli con lo stato italiano il 2 maggio 1889, con il quale, tra le altre cose, l’Italia “riconobbe ufficialmente Menelik come imperatore di Abissinia e garantì anche al suo stato l’esenzione dalle imposte di dogana per le merci che transitavano per il porto di Massaua”. Il patto riconobbe allo stato italiano i territori del nord Etiopia: Bogos, Hamasen e Akele Guzay (la moderna Eritrea e il nord Tigray) in cambio di una somma di denaro e la fornitura di 30.000 moschetti e 28 cannoni. Alcuni moderni studiosi sostengono che Menelik mostrava scarso se non proprio alcun interesse per il territorio dell’Eritrea oltre il Mereb. In realtà, egli fu anche accusato di “cospirare con gli italiani, che avevano proceduto ad occupare l’Altopiano e a colonizzare l’Eritrea con la sua approvazione”.
Per quanto riguarda il così detto ruolo del Massaja nella colonizzazione italiana, c’è da osservare che non è suffragato da alcuna prova concreta, ma si tratta piuttosto di una congettura basata su circostanze storiche. Il fatto è che, ai sensi dell’articolo 17 del Trattato di Uccialli, il sovrano dell’Etiopia doveva svolgere tutta la politica estera attraverso lo stato Italiano, rendendo così di fatto l’Abissinia un protettorato Italiano, 10 anni dopo che il Massaja era stato definitivamente esiliato! La versione amarica, però, dice che il sovrano “può” e non “deve”. Di conseguenza, lo stato italiano prese l’iniziativa di invadere l’Abissinia e colonizzarla, al fine di risolvere questa discrepanza tra “deve” e “può”.
Solamente dopo l’ultimo esilio (a molti mesi di distanza da questi avvenimenti), Massaja venne a sapere che il governo italiano lo aveva cercato per affidargli il ruolo di negoziatore del trattato di amicizia e commercio. Massaja rassegnò le dimissioni dal suo ufficio di Vicario Apostolico degli Oromo il 23 maggio 1880, in favore del suo co-adiutore, Mons. Cahagne Taurin. In un clima di diffusa e universale venerazione, il vecchio fondatore del Vicariato di Oromo si ritirò nel convento dei cappuccini di Frascati, dove si trovano le sue memorie. Il 10 novembre 1884, fu elevato al Sacro Collegio dei Cardinali dal Papa Leone XIII, e morì il 6 agosto 1889 (all’età di 81 anni) a Cremano (Napoli).
L’eredità di Massaja
La morte di Yohannes ridusse l’influenza del Tigrai sul governo etiopico e aprì agli italiani la strada per occupare più distretti precedentemente detenuti dai nobili del Tigrai. Le annessioni effettuate dagli italiani in questo periodo alla fine portarono alla creazione della colonia dell’Eritrea e alla definitiva sconfitta di Adua ad opera dell’imperatrice Tai’tu nel 1896. La nobiltà manteneva l’influenza sulla corte imperiale, anche se non al livello goduto sotto Yohannes. I discendenti di Yohannes governarono il Tigrai come prìncipi ereditari fino alla rivoluzione etiopica, e la caduta della monarchia nel 1974 pose fine definitivamente al loro potere. Menelik, dopo la vittoria su Yohannes, estese l’impero a sud. E così si formò la moderna Etiopia che noi conosciamo. Nel corso degli eventi storici che abbiamo tracciato, Massaja si trovò ad avere rapporti con tre diversi imperatori, e sempre consigliò agli italiani di trattare con gli etiopi con le armi della diplomazia e non con la forza.
La reputazione del Cardinale Guglielmo Massaja fu infangata in alcuni ambienti che presentavano fatti senza conoscere la verità o una verità senza conoscere i fatti. Nel 1939, Mussolini fece girare il film Abune Massias, che narrava la vita del missionario Cappuccino in Abissinia. Il film fu utilizzato per promuovere e giustificare l’invasione italiana dell’Etiopia nel 1935 sostenendo che il fine principale degli italiani era di portare agli etiopi la civiltà ed il cristianesimo, anche se in realtà quei popoli erano già stati civilizzati e cristianizzati molto prima. Come le monarchie medievali che in Etiopia cercavano di utilizzare uomini santi, cioè i monaci, a proprio vantaggio, ma generalmente fallirono nel loro intento, allo stesso modo Mussolini strumentalizzò la fama di questo uomo santo dopo la sua morte. E, come tanti santi uomini del passato, Massaja dovette soffrire in vita per mano di funzionari civili ed ecclesiastici così come la sua figura ebbe a soffrire dopo la sua morte.