di Carlo Nardi • Che dire in questo Natale, se non l’unica ed eterna Parola di Dio fatta carne? Subissata ora da fantasmagorici ed evanescenti lustrini ora da disperate paure, l’onnipotente Parola del Padre, fattasi fragile bambino, sembra continuare il suo nascondimento, anzi l’annullamento (kénōsis) di Betlemme, di Nazareth, del Calvario. Ed è ancora quella Parola fatta carne nella sommessa “discrezione” della sua Pasqua. Il frastuono esteriore e interiore, specialmente il fluire caotico e inarrestabile dei pensieri con fosforescenti bagliori o tetre caligini, fanno rilevare sempre di più la solitudine del Verbo di Dio, fatto uomo. Come mai? La nostra ragione va in cerca di evidenze luminose, la fede invece indirizza noi, come allora i pastori, a un segno di per sé quanto mai equivoco: un bambino, avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia. Un fatto, certo, un po’ strano, ma che in sé non ha nulla di straordinario, di miracoloso, di divino.
Ci piace andare alla ricerca di un qualcosa che ci torni, che quadri con l’idea di Dio che ci siamo fatti e ci si fa: una immaginazione circonfusa di potere ed efficienza. Invece, nell’incarnazione del Figlio di Dio la brutale concretezza di quello spazio e di quel tempo ci sconcerta: qui ed ora c’è Dio uomo, non meno uomo perché Dio né meno Dio perché uomo.
È quanto risuona nelle parole di un antico scrittore cristiano, africano, di lingua latina tra il primo e il secondo secolo, Tertulliano nel suo libro La carne di Cristo:
«Cristo ha amato davvero quell’essere umano coagulato nell’utero, venuto al mondo attraverso le vergogne, fatto crescere mentre è oggetto di riso. Per quello è disceso quaggiù, per quello ha annunciato il vangelo, per quello con ogni umiltà si è abbassato fino alla morte e alla morte di croce (Fil 2). Ha amato chi ha riscattato a caro prezzo. Con l’uomo ha amato anche il suo nascere, anzi anche la sua carne» (La carne di Cristo 4,3). E dall’incarnazione Tertulliano passa alla croce: «Ci sono certamente anche altre cose egualmente folli, quelle attinenti alle offese e le sofferenze che Dio ha subito. O che vorranno chiamare saggezza un Dio messo in croce? Che cosa infatti è più indegno di Dio, di che cosa ci si deve vergognare di più? di nascere o di morire? Di portarsi addosso una carne o una croce? (…) Di essere deposti in una mangiatoia o in una tomba?» (La carne di Cristo 5,1). Eppure «è stato crocifisso il Figlio di Dio: non è una vergogna, proprio perché c’è da vergognarsi. Ed è morto il Figlio di Dio: è cosa credibile proprio perché impresentabile. E, una volta sepolto, è risorto: è cosa certa perché impossibile!» (La carne di Cristo 5,4).
L’ascolto di Tertulliano è urtante. Il lettore è indotto a pensare: Ma che ci viene a dire? Eppure ci dà delle dritte. Intanto, altra cosa è la “poesia” del Natale, altra la incarnazione di Dio, talora così impoetica, sconcertante fino alle vertigini. Eppure la carne di Dio fattosi uno di noi ci riconcilia in tutto e per tutto con la nostra umanità, tutta quanta e così com’è. Sicché non si può separare il Natale dalla Pasqua e nella Pasqua la croce dalla risurrezione né la risurrezione dalla croce. Così nel Natale, non si è può dividere l’umanità dalla divinità, perché una umanità a tutto tondo sussiste in Dio fatto uomo. Ben venga la passione per icone dell’oriente con la loro stilizzazione atta a evocare il Cielo, ma ha la sua ragion d’essere nel culto di Dio anche la plasticità della statuaria antica, come la concretezza talora imbarazzante del nostro Rinascimento. Tanto per fare una divagazione estetica che può valere non più di tanto. Ma anche il Concilio di Calcedonia (451) insegna che le due nature, l’umana e la divina in Cristo, vero Dio e vero uomo, sussistono «senza separazione, senza confusione, senza divisione, senza mutamento o alterazione».
Ne deriva il rispetto per la “terra”, per queste cose terrene, naturali, laiche, che il Vangelo non sorpassa per proiettarci nel “cielo”: non si può dichiarare offerta sacra ciò che è dovuto al padre o alla madre, parole del Figlio di Dio (cf. Mc 7,11-12). Ne scaturisce amore per l’umanità, quella concreta in ogni uomo o donna così com’è. Il Natale è Dio fatto uomo, “il figlio del carpentiere” (Mt 13,55), anzi “il carpentiere” (Mc 6,3).