di Alessandro Clemenzia · A pochi giorni dalla scomparsa credo che sia più che doveroso ricordare la profondità teologica di un uomo, quale è stato Gustavo Gutiérrez, fondatore della Teologia della liberazione, non tanto a mo’ di elogio funebre, quanto piuttosto come atteggiamento di riconoscenza verso una persona nella cui visione orizzontale della realtà non ha mai fatto venire meno quella verticalità che contraddistingue e anima un pensiero che voglia definirsi autenticamente cristiano.
Probabilmente il modo migliore per poter far emergere la grandezza del suo pensiero richiede un metodo particolare, e cioè quello di fissare lo sguardo su un singolo aspetto centrale, andando consapevolmente oltre nell’interpretarlo, sia alla diverse derive e contrapposizioni teologiche che hanno animato la vita ecclesiale in questi ultimi decenni, sia a quei tentativi ecclesiologici che hanno voluto estrapolare un pensiero, germinato in un particolare contesto socio-politico e culturale, per trapiantarlo in situazioni e condizioni tutt’altro che simili. L’intento, in altre parole, è quello di concentrarsi su un autore che ha creato una scia di pensiero, senza tuttavia interpretarlo alla luce di ciò che è accaduto dopo; nella consapevolezza che tale modo di procedere, pur essendo limitante, ha comunque una sua validità. Ciò nonostante, è importante ricordare che la specificità di un pensiero si può rintracciare comunque anche all’interno del fenomeno da esso prodotto.
Gutiérrez, tra i diversi fautori della Teologia della liberazione, è probabilmente il più vicino alla “teologia argentina del popolo”, portata avanti da altri grandi pensatori, come il gesuita Juan Carlos Scannone, che poi ha avuto un grande influsso sulla formazione teologica e culturale di Papa Francesco.
Delle diverse tematiche che hanno caratterizzato il pensiero di Gutiérrez e che potrebbero essere presentate, vorrei soffermarmi in particolare su quella che, a mio avviso, appare davvero centrale nella sua riflessione teologica e che emerge in un volumetto da lui scritto, intitolato “Perché Dio preferisce i poveri” (EMI 2015): l’opzione preferenziale per i poveri. Si tratta di un’espressione coniata durante la Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano di Puebla nel 1979. Tale opzione tornò successivamente al centro del dibattito del CELAM come espressione capace di condensare e sintetizzare il fulcro del messaggio evangelico, trovando in Cristo la sua condizione di possibilità; come affermò Benedetto XVI nel discorso inaugurale di Aparecida: «In questo senso, l’opzione preferenziale per i poveri è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci con la sua povertà» (13 maggio 2007). Nel documento conclusivo di Aparecida, recuperando le parole del Papa bavarese, è scritto: «Esta opción nace de nuestra fe en Jesucristo, el Dios hecho hombre, que se ha hecho nuestro hermano. Ella, sin embargo, no es ni exclusiva, ni excluyente» (n. 392). Papa Francesco, che da cardinale coordinò l’equipe che scrisse questo documento conclusivo, più volte ha menzionato tale dinamica ecclesiologica (e prima ancora cristologica) in Evangelii gaudium. Così Gutiérrez ha commentato: «Nella Evangelii gaudium (EG) Francesco spiega molto chiaramente il significato dell’opzione preferenziale per i poveri, facendo riferimento in particolare al rapporto tra universalità e preferenza» (p. 7), vale a dire, quella duplice tensione che la Chiesa deve costantemente conservare e alimentare: in primo luogo, l’essere protesi verso tutti, senza alcuna eccezione; in secondo luogo, alla luce dell’insegnamento del Vangelo, il privilegiare in particolare i poveri e i sofferenti.
Tale preferenza, tuttavia, non va intesa come atteggiamento “opzionale”, facoltativo, che si può avere o non avere al tempo stesso, ma è qualcosa che va a caratterizzare l’esperienza cristiana, come sequela del proprio Maestro. Per questa ragione Papa Francesco afferma: «Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica» (EG 198). La preferenza, inoltre, va sempre compresa in relazione all’universalità, in quanto «è la manifestazione dell’universalità dell’amore di Dio» (p. 36).
Scrive Gutérrez: «La teologia della liberazione è una teologia che parla di e dal punto di vista dell’opzione preferenziale per i poveri. Se fosse possibile quantificare qualitativamente le cose, direi che l’opzione preferenziale per i poveri costituisce il novanta per cento della teologia della liberazione. Questa teologia nasce dall’intento e dall’obiettivo di prendere sul serio la sfida della povertà che sollecita la coscienza umana e, in modo particolare, la coscienza cristiana» (p. 16). L’attenzione ai poveri, dunque, scaturisce dalla sequela di Colui che povero si è fatto; per questa ragione la povertà è un fenomeno a più facce, e non può essere interpretata esclusivamente da un punto di vista economico: «La povertà è molto di più di questo. La dimensione economica è importante, ma non è l’unica. Ve ne sono altre: culturali, razziali, etniche e di genere, solo per citarne alcune» (pp. 20-21). Il povero, per Gutiérrez, non allude a una classe sociale da difendere, al “proletariato”, ma è sinonimo di essere “indifeso” e “insignificante”. Siamo nel cuore dell’esperienza tipicamente cristiana.
Gutiérrez è stato davvero un uomo che ha saputo guardare la realtà con “occhi di Pasqua”, recuperando le parole del teologo Klaus Hemmerle, e cioè «capaci di guardare nella morte fino alla vita, di guardare nella colpa fino al perdono, di guardare nella separazione fino all’unità, di guardare nelle piaghe fino alla gloria, di guardare nell’uomo fino a Dio, di guardare in Dio fino all’uomo, di guardare nell’io fino al tu».