A cinquant’anni dalla Esortazione Paterna cum Benevolentia di Paolo VI

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di Gianni Cioli · L’Esortazione apostolica Paterna cum benevolentia pubblicata l’8 dicembre 1974, in preparazione all’Anno Santo del 1975, l’Anno santo della Riconciliazione, aveva come scopo la promozione della riconciliazione intraecclesiale; il superamento di ogni polarizzazione del dissenso, di ogni frantumazione della comunione nella Chiesa.

Il documento va certamente situato nel particolare contesto in cui è sorto, caratterizzato da un certo acutiz­zarsi del fenomeno della contestazione. Nelle sue argomentazioni si possono comunque cogliere apporti di notevole interesse per la presente ricerca, validi al di là della contingenza storica che lo ha generato.

Il primo aspetto interessante che emerge da una comparazione della Paterna cum benevolentia con altri documenti di Paolo VI riguarda la particolare sottolineatura della categoria di sacramento quale espressione della realtà ecclesiale.

Citando la Lumen gentium il Papa definisce la Chiesa “‘come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano; il luogo cioè di irraggiamento, di unione degli uomini con Dio e di unità tra loro, che, attraverso progressiva affermazione nel tempo, troverà compimento nella consumazione dei tempi”.

Questa particolare sottolineatura è dovuta certamente alla funzionalità della categoria sacramentale applicata alla Chiesa, a evidenziare l’importanza della prassi della riconciliazione nella comunità dei credenti. Forse in tale sottolineatura ha influito comunque anche l’interesse notevole, mostrato dalla teologia e dalla pubblicistica cattolica in generale nel primo decennio postconciliare, per la riflessione sulla sacramentalità della Chiesa.

Punto di partenza dell’argomentazione di Paolo VI è la coscienza della trasformazione attuata dall’opera redentrice di Cristo: “per essa il mondo è diventato una realtà radicalmente nuova”.

L’opera redentrice, realizzatasi nel mistero pasquale, può essere sintetizzata nel concetto di riconciliazione. “La riconciliazione, attuata da Cristo crocifisso”, afferma il Papa, “si iscrive nella storia del mondo, che an­novera ormai tra le sue componenti irreversibili l’evento di Dio fattosi uomo e morto per salvarlo”.

Il mistero della redenzione è dunque una realtà non circoscritta all’ambito ecclesiale: è un mistero che ab­braccia tutto il mondo. Ma di tale mistero la Chiesa è in maniera specifica sacramento, cioè segno e strumento. Perciò la riconciliazione “trova permanente espressione storica nel corpo di Cristo che è la Chiesa”, costituita sulla terra quale “mondo riconciliato”.

Sulla base di questi presupposti, Paolo VI può cogliere le conseguenze morali che derivano per il credente, in ordine alla riconciliazione: “Poiché la Chiesa è il corpo di Cristo e Cristo è ‘il salvatore del suo corpo’, tutti, per essere membri degni di questo corpo, devono, in fedeltà all’impegno cristiano, contribuire a mantenerlo nella sua natura originaria di comunità di riconciliati, derivante da Cristo nostra pace che ‘ci rende rappacifi­cati’”.

La Chiesa, “perché ‘mondo riconciliato’ è anche realtà nativamente e permanentemente riconciliante; e, in quanto tale, essa è presenza e azione di Dio ‘che riconcilia a sé il mondo in Cristo’”.

Questa presenza e azione di Dio si esprimono primariamente nei sacramenti che attualizzano il mistero della redenzione e trasmettono alla prassi di riconciliazione il valore del sacrificio pasquale. Connesso con il discorso relativo ai sacramenti è quello relativo al ministero gerarchico. Infatti, afferma Paolo VI, affinché “la riconciliazione, che si opera nell’intimo del cuore, abbia carattere pubblico come la morte di Cristo che la procura, il Signore ha conferito agli apostoli, il ‘ministero della riconciliazione’”. Essi sono stabilmente deputati a edificare il proprio gregge nella verità e nella santità”.

Nell’ecclesiologia di Paolo VI viene dunque sottolineato l’elemento oggettivo e strutturale in forza del quale la Chiesa può essere segno e strumento di riconciliazione. La riconciliazione, nel suo duplice aspetto verticale e orizzontale, si realizza per la Chiesa e nella Chiesa, perché questa è innanzitutto opera della grazia e istituzione capace di trasmettere la grazia stessa attraverso canali che sono oggettivi e tangibili. Essa è “un’unica realtà risultante da un duplice elemento umano e divino, analogo al mistero del Verbo incarnato, che la costituisce ‘sulla terra comunità di fede, di speranza e di carità quale organismo visibile’, mediante il quale Cristo ‘diffonde su tutti la verità e la grazia’”.

Questo fondamento oggettivo della sacramentalità della Chiesa, consistente nell’intima connessione fra grazia e istituzione, non oscura anzi avvalora l’importanza della responsabilità del credente per una piena realizzazione della missione ecclesiale.

Se la Chiesa è il sacramento dell’unione degli uomini con Dio e dell’unita tra di loro, “per poter esprimere pienamente questa sacramentalità alla quale è legata la sua stessa ragion d’essere, bisogna che la Chiesa, come si richiede per ogni sacramento, sia segno significante”.

Ogni divisione, ogni frattura tra cristiani contraddice questa ragion d’essere della Chiesa, diminuisce la forza della sua testimonianza, vela le ragioni della sua esistenza e oscura la sua credibilità. In forza di questo Paolo VI fa appello alla responsabilità di tutti i fedeli perché essi si impegnino ad attuare, a tutti i livelli, quella concordia intraecclesiale necessaria per la piena realizzazione della missione.

Il Papa riconosce che, anche se la Chiesa non ha mai cessato di essere segno di salvezza nel mondo, non sono purtroppo mancati, tra i suoi membri, quelli che non sono stati fedeli allo Spirito santo. È in questa infedeltà che va ricercata la radice di tante divisioni che nella storia hanno oscurato – e continuano a farlo ancora oggi – la sacramentalità della Chiesa.

In quest’ottica la responsabilità morale del singolo per la realizzazione della missione ecclesiale viene accen­tuata. Per quanto le mancanze di singoli o di gruppi non intacchino la Chiesa nella sua essenza, la sua funzione di essere segno della salvezza può certamente venire negativamente condizionata dal peccato dei cristiani.

Questa prospettiva non è certamente nuova per il pensiero di Paolo VI; tuttavia essa si accentua nella misura in cui si considera la Chiesa più nella sua dimensione funzionale che in quella essenziale, facendo leva sulla categoria di sacramento.

Sottolineare, in linea col Vaticano II, la sacramentalità della Chiesa significa voler cogliere il suo essere per, la sua pro-esistenza oltre che il suo essere in sé, l’ontologia; significa considerare come costitutivo della riflessione teologica il riferimento all’agire oltre che il riferimento all’essere.

Porre attenzione alla pro-esistenza della Chiesa non può andare a detrimento della sua ontologia: l’agire è fondato sull’essere. Tuttavia, una più profonda attenzione all’agire, alla funzione, può risultare illuminante per comprendere l’essere.

Tale attenzione è intimamente connessa con la valorizzazione dell’elemento soggettivo nella Chiesa. Quanto più si restringe lo sguardo al polo oggettivo, valorizzando l’in sé della Chiesa (la santità oggettiva dell’istituzione, la perfezione della sua essenza), tanto più la questione della responsabilità morale dei credenti per la realizzazione della Chiesa diventa un problema secondario, per quanto serio. Quanto più viceversa, ci si preoccupa della funzione della Chiesa, del suo essere per il mondo, degli esiti del suo agire, tanto più emerge, di conseguenza e in maniera drammatica, il polo soggettivo: il problema della responsabilità morale dei membri della Chiesa in ordine alla sua funzione.

Paolo VI non ha mai separato i due poli, non ha mai disgiunto l’essere in sé dall’essere per della Chiesa; ha invece sempre sottolineato l’intimo legame esistente tra una sempre più lucida coscienza di sé della Chiesa, della sua essenza, con una sempre più lucida consapevolezza della sua missione, della sua funzione nel mondo. Conseguentemente egli ha sempre colto, con estrema chiarezza, il valore dell’impegno morale del singolo per la realizzazione della Chiesa.

Se questo è un dato permanente del magistero di Paolo VI, bisogna tuttavia riconoscere che nella Paterna cum benevolentia la valorizzazione del polo soggettivo emerge in maniera più decisa. Nella sua Esortazione Paolo VI è preoccupato soprattutto di opporsi al soggettivismo, disgregatore della comunione ecclesiale. Ma, proprio per questo, egli deve fare appello alla responsabilità soggettiva nei confronti della comunione ecclesiale.

In quest’ottica il comportamento cristiano potrà, secondo Papa Montini, essere capace di porre i presupposti di una sempre più profonda riconciliazione nella misura in cui saprà fondarsi nel mistero pasquale, nella croce di Cristo. Nella radice pasquale della prassi cristiana può essere risolta ogni tensione fra polo soggettivo e polo oggettivo nella Chiesa, fra valorizzazione dell’apporto personale e crescita nell’unità. L’assunzione del mistero pasquale quale criterio guida dell’agire e la conseguente capacità di rinuncia a se stessi per amore deve far scaturire, secondo Paolo VI, “una fraterna apertura agli altri, tale da far riconoscere volentieri le capacità di ciascuno, e da consentire a tutti di dare il proprio apporto all’arricchimento dell’unica comunione ecclesiale ‘cosi tutte le singole parti sono rafforzate, comunicando ognuna con le altre e concordemente operando per la pienezza’”. In questo senso, secondo il Papa, “si può consentire sul fatto che l’unità ben compresa permette a ciascuno di sviluppare la propria personalità”.

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