La professionalizzazione dell’attività giuridica in epoca medievale

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di Francesco Romano • L’esperienza giuridica medievale per la sua forte tipicità consente di cogliere le specifiche ragioni di cesura e discontinuità tanto rispetto all’epoca classica, quanto a quella moderna.

Nel medioevo il diritto ha rappresentato e costituito la dimensione radicale e fondante della società, un basamento stabile, come dirà Paolo Grossi, che fa spicco rispetto alla caoticità e alla mutevolezza del quotidiano. La società medievale è giuridica perché si compie e si salva nel diritto, giuridica è la sua costituzione più profonda e sta lì il suo volto essenziale, sta lì la sua cifra ultima. A paragone delle risse della disordinatissima superficie, contrasta l’ordine della secreta, ma presente costituzione giuridica.

Su queste premesse è evidente che due questioni assumono particolare urgenza: la prima riguarda l’individuazione del tempo in cui può ritenersi compiuta la professionalizzazione dell’attività giuridica, la seconda concerne i tempi e i modi della sua regolazione.

Rispetto al primo profilo si impone come preliminare una precisazione terminologica. Occorre, infatti stabilire cosa si intenda per “professione”. In proposito si condividono due definizioni che si sono affermate: secondo l’una è “professionista” chi sia riconosciuto dagli altri consociati in possesso di una particolare esperienza nelle materie giuridiche, tale da poter essere messa al servizio della collettività dietro compenso e da costituire la parte preponderante dell’attività del soggetto in questione. Secondo l’altra definizione, alla specifica competenza deve aggiungersi l’esistenza di un criterio di selezione, di formale ammissione all’esercizio dell’attività.

Stabilire quando si possa parlare di “professione” è rilevante perché porta a considerare in quali modi, e grazie a quali forze il diritto si sia costituito nella sua autonomia. Il che significa investigare, tra l’altro, la specificità delle tecniche compositive del conflitto sociale messe in atto dai giuristi professionisti e quindi riconosciute dalla collettività: tecniche razionali, amministrate dall’intervento più o meno creativo di un esperto e come tali autentiche rispetto alle tecniche della politica, che al conflitto disarmato rimette la soluzione delle contese.

La professionalizzazione impone precise regole. La questione delle regole richiama qui il rapporto tra poteri e ulteriormente, in questa cornice, la definizione dello spazio riconosciuto al diritto nella sua costituita autonomia. In conclusione essa è una questione di nomos.

Per questa via i modelli che la storia ci ha consegnato appaiono radicalmente disomogenei.

In Inghilterra il tempo dell’evoluzione giuridica è scandito per via di rifiuti: dal rifiuto della ricezione del diritto romano, al rifiuto della tradizione culta e universitaria, al rifiuto della codificazione delle regole. Da principio è il sovrano a imporre e organizzare le corti di giustizia quali emanazioni della propria curia, ma ben presto egli è costretto a riconoscere il peso dell’autorità dei nobili che, nell’assenza di rivali doctores, si impossessano del controllo delle corti proprio predisponendo una del tutto peculiare organizzazione della professione forense. Pertanto, è possibile constatare come alla risoluta determinazione al rifiuto corrisponda una altrettanto fiera affermazione del monopolio sul common law.

Il Francia al contrario è il re a mantenere il controllo della sfera giuridica, oltre che di quella politica: si appropria delle strutture giuridiche ecclesiastiche, interviene nella nomina dei giudici; esce vittorioso dallo scontro con la nobiltà, l’Impero e il Papato.

Il Sacro Romano Impero Germanico organizza i propri giuristi come funzionari dell’imperatore, accrescendone l’autorità in questa forma istituzionale, sino a che, con la costituzione del Reihskammergericht, la corte suprema del Sacro Romano Impero come corte stabile di giustizia, il suo compito era quello di sostituire le faide, la violenza e la guerra con una procedura regolamentata delle controversie. La forza dei doctores riuscirà a imporre la ricezione formale del diritto romano come fonte del diritto tedesco.

Un altro aspetto riguarda la considerazione dell’advocatus e della sua attività da un punto di vista teologico per le specificità dello spirito medievale. Nell’affrontare la tematica non comune, non usualmente rinvenibile negli scritti che si occupano della professione giuridica, è momento fondante l’analisi degli scritti di San Bernardo di Chiaravalle.

In essi si trova, in primo luogo, un riconoscimento: l’importanza delle conoscenze come talento da usare a servizio degli altri e da potenziare. Nel Sermone sul Cantico dei Cantici, San Bernardo richiama le parole del profeta Osea: “Perisce il mio popolo per mancanza di conoscenza. Perché tu rifiuti la conoscenza, io rifiuterò te come mio sacerdote”. In tal modo è posta la preliminare ammissione della derivazione divina di ogni sapere e la volontà altrettanto divina di servirsi di sacerdoti sapienti.

Proprio l’immagine del “sacerdote sapiente” è quanto mai appropriata per rappresentare e identificare il giurista medievale. Ma San Bernardo va oltre ed espressamente prende posizione in materia di diritto, affermando l’assoluta importanza dei procedimenti, che soli possono assicurare la giustizia, risarcendo chi sia stato indebitamente offeso. Perciò la professione giuridica non è macchiata da difetti intrinseci, ontologici, anzi, per il perseguimento del fine di giustizia, essa è assolutamente necessaria. È uno dei diversi modi in cui si può manifestare il “bene”, a seconda della vocazione diversa che a ciascuno è stata affidata da Dio.

Vi è di più, è possibile trovare proprio nelle Sacre Scritture la fondazione e la giustificazione teologica diretta del ruolo dell’advocatus. È, infatti, nei testi sacri che Dio elegge Cristo, suo Figlio, come advocatus innanzi a sé per l’intera umanità. Ma advocatus è anche lo Spirito Santo mandato dal Padre per dimorare in mezzo agli uomini: paracletus latine dicitur advocatus, conferma Sant’Agostino.

A questo modello di rappresentanza l’avvocato è tenuto a uniformare la propria condotta. Dunque, anche i singoli atti di esercizio della professione debbono inscriversi in un ordine di superiore verità.

Riscoperta questa ragione ultima, inevitabilmente la critica si fa veemente quando la conoscenza giuridica è asservita all’ambizione e al vizio e distratta dalla sua destinazione essenziale. Così è condannata la curiosità vana, triviale e irresponsabile.

Parimenti detestabile è l’esercizio della professione per il soddisfacimento esclusivo della propria ambizione o della propria brama di denaro, perseguendo scopi egoistici.

C’è una questione da risolvere sul piano teologico: si tratta del rapporto tra le esigenze della difesa e la ricerca della verità. L’artificio retorico dell’avvocato, che costruisce i propri argomenti in modo da garantire la tutela del rappresentato, può collidere con la verità, impedendo, o quanto meno ottenebrando, il suo conseguimento.

L’argomento viene da lontano: Platone, nel Gorgia, tramite la bocca di Socrate, definisce la retorica come pratica della persuasione mediante discorsi fondati dalla credenza e non dalla conoscenza. Lo sviluppo interessante elaborato da San Bernardo su queste basi consiste nella contrapposizione tra legge di Dio e legge di Giustiniano, l’una ontologicamente tesa alla perfezione della verità e della giustizia, l’altra vanamente sofisticata e perniciosamente incline allo sviluppo della litigiosità.

Il sovrano veniva celebrato con il ricorso al linguaggio cristologico come typus Christi, e ciò investiva l’aspetto non solo ontologico, ma anche funzionale dell’ufficio regale.

La funzione duale dell’imperatore, signore e ministro di giustizia, continuava a essere espressa con termini di chiara derivazione canonistica. La riscoperta del diritto romano comportò l’identificazione del Princeps non più con l’oracolo del Dio, ma con la lex animata, ossia con la legge vivente, con l’incarnazione della giustizia, intesa non più come giustizia di Melchisedech, ma come giustizia di Accursio.

Questo cambiamento di prospettiva comportò una ulteriore conseguenza. L’immagine escatologica del rex iustus non poteva che attenuarsi nella sua definizione originaria, ma se ne potevano recuperare i fondamenti e di questi garantire la sopravvivenza attraverso la progressiva sacralizzazione della figura del giurista. In tal modo venne assicurata la continuità politica dell’ideale biblico e messianico del re della giustizia che aveva dominato nell’Alto Medioevo.

Il trasferimento del sacerdozio metaforico dalla persona del re a quella del giurista comportò l’effetto di garantire alla professione legale il monopolio della giustizia, sottraendo al sovrano le originarie prerogative del giudice.

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Francesco Romano

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