Daniélou: 50 anni fa la morte… l’anticonformismo teologico e il Vangelo

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di Francesco Vermigli · Ci sono morti che segnano le vite. In qualche modo, quelle vite vengono lette a partire dalla fine: ad esempio, la storia è piena di conversioni e di salvezze ottenute all’ultimo tuffo, che proiettano un sentimento favorevole sulla persona; anche oltre quello che ci insegna l’antico e pio adagio del parce sepultis. Invece, c’è stata una morte che ha rischiato di schiacciare e di segnare per sempre e in maniera negativa il ricordo di un uomo, di un teologo, di un gesuita, di un cardinale; tanto da far dimenticare – almeno per un po’ – di quella vita i passaggi esistenziali fondamentali, gli snodi teologici decisivi, i contributi lasciati alla storia del pensiero cristiano.

Mi riferisco al gesuita francese e cardinale, Jean Daniélou, morto alla fine di maggio di 50 anni fa, alla porta della casa di una donna che le cronache puritane dell’epoca avrebbero definito “chiacchierata” o “di malaffare”. Una morte disonorevole, almeno all’apparenza. Una morte che ha fatto scatenare la chiacchiera pruriginosa e ha aperto facilmente il fianco agli strali anticlericali della Francia e della Parigi da poco uscite dal loro ’68: nel maggio di sei anni prima a quella morte. E tutto il resto della vita di colui che era stato uno dei teologi più significativi e decisivi della stagione pre- e post-conciliare passò – almeno per un po’ – nel dimenticatoio. Ma la Provvidenza (e la verità) ha i suoi giri e non la puoi prevedere e neanche fermare. E bastò ascoltare chi quella morte la vide accadere davanti a sé, per sapere come andò quella morte e perché il gesuita da poco cardinale si trovasse a quella porta. E quella morte, all’apparenza disonorevole – ma che avvenne mentre Daniélou era andato ad aiutare economicamente quella donna – divenne realizzazione del Vangelo di Gesù disprezzato e reietto, secondo la stessa preghiera di Daniélou che compare nei suoi Diari spirituali del 1938: «accettare di essere disonorato, anche agli occhi di coloro che amo, se Egli lo permette».

Ma chi è stato Daniélou? Chi è stato nella Chiesa e nella teologia novecentesche? Innanzitutto, pare necessario cogliere la decisività della sua appartenenza alla grande stagione del gesuitismo francese dello scorso secolo. È sufficiente qui rievocare i nomi dei grandi teologi e dei grandi uomini della Compagnia: de Grandmaison, Lebreton, de Lubac, Féssard, de Certeau, Tilliette… anche Teilhard de Chardin che pure in Francia abitò ben poco, ma crebbe in quel contesto. E ancora prima – stroncato ancora giovane da una granata mentre si trovava a esercitare il proprio servizio di cappellano dell’esercito francese, tra le trincee dell’“inutile strage” – Pierre Rousselot. Di tutti questi pensatori e teologi gesuiti francesi si apprezza l’originalità del pensiero, l’apertura alle grandi domande della modernità, ma anche la fedeltà alla comunione ecclesiale. Daniélou si staglia con un proprio profilo in questo contesto dinamico e mosso, originale e complesso.

Nacque in una famiglia dell’alta borghesia parigina, nel 1905: annus horribilis per la Chiesa in Francia, con l’abrogazione unilaterale del Concordato napoleonico del 1801, mediante la Legge di separazione tra Stato e Chiesa. Daniélou portava nella sua stessa famiglia i segni della grande divisione interna alla società francese della Belle Époque: il padre politico e più volte ministro di ispirazione fermamente anticlericale, la madre fervente cattolica e innovativa educatrice delle donne, il fratello Alain minore di due anni che diventerà uno dei più noti indianisti di origine europea. Una realtà familiare di partenza – caratterizzata da cosmopolitismo, differenze di prospettive, serietà dell’impegno – che non potrà non segnare il suo pensiero. Dopo l’entrata nella Compagnia e l’ordinazione presbiterale, Daniélou si segnala come docente di storia antica e di patristica presso l’Institut catholique e come fondatore assieme ad un altro gigante della teologia novecentesca (von Balthasar) di Sources Chrétiennes, celeberrima collana di edizioni di testi patristici (e poi anche medievali), il cui primo volume – con l’edizione della Vita di Mosè di Gregorio di Nissa – fu curato proprio da lui.

L’altra stagione della sua vita iniziò con la nomina da parte di Giovanni XXIII di Daniélou come perito al Vaticano II; passando poi attraverso l’ordinazione episcopale e la creazione come cardinale, nel giro di poche settimane nella primavera del 1969. Con la sua partecipazione all’assise conciliare Daniélou lasciò il segno tanto nella Dei Verbum, quanto nella Gaudium et spes. Nella prima si può riconoscere l’ispirazione del gesuita francese nel riferimento alla preparazione della rivelazione di Gesù che si trova nell’umanità e nel popolo di Israele in particolare (DV 3): preparazione alla rivelazione evangelica che faceva risuonare la latitudine del suo pensiero in relazione alle esperienze religiose come vie di presenza misteriosa, per quanto parziale della grazia di Dio. Nella Gaudium et spes, invece, gli studi riconoscono a Daniélou un ruolo decisivo per l’inserimento delle tematiche personalistiche all’interno della Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.

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Francesco Vermigli

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