di Andrea Drigani • San Benedetto da Norcia, la cui date di nascita e di morte sono tradizionalmente assegnate al 480 e al 547, compose la sua Regola (Regula) dopo il 530. Il capitolo XXXIII della Regula s’intitola: Se i monaci possono possedere qualcosa di proprio (Si quid debeant monachi proprium habere). Il testo dice: «Questo vizio in modo particolare va estirpato radicalmente nel monastero, affinché nessuno osi dare o ricevere qualcosa senza il permesso dell’abate, né possedere alcunché di proprio: nulla nel modo più assoluto, né libro, né tavolette per scrivere né stilo, assolutamente nulla, poiché non è più lecito disporre del proprio corpo e della propria volontà. Tutto ciò di cui si ha bisogno lo si domandi al padre del monastero: nessuna ha diritto di avere ciò che l’abate non ha dato o non ha permesso. «Tutto sia comune a tutti» – come sta scritto – così che «nessuno dica o presuma di considerare qualcosa di sua proprietà». Se si troverà qualcuno che si compiace di questo pessimo vizio, sia ammonito fino a due volte; e se non si correggerà, venga sottoposto a una punizione». Per San Benedetto, dunque, la proprietà comune deve assolutamente prevalere su quella personale, secondo quanto si legge negli Atti degli Apostoli (4, 32-35) e, ancora nella Regola, al capitolo XLVIII: Il lavoro manuale quotidiano (De opera manuum cotidiana), richiamandosi all’insegnamento di San Paolo (I Cor 4,12), ammonisce il monaco che, come del resto ogni cristiano, deve anzitutto bastare a se stesso, senza essere a carico degli altri, perché guadagnarsi da vivere è un dovere di giustizia. San Tommaso d’Aquino (1225-1274), settecento anni dopo la Regula benedettina, ribadiva che «l’uomo non deve possedere i beni esterni come propri, ma come comuni» perché «sopra le leggi e giudizi degli uomini, sta la legge, il giudizio di Cristo». Papa Leone XIII nell’Enciclica «Rerum novarum», pubblicata il 15 maggio 1891, in continuità con la tradizione cristiana, nel proclamare il diritto di proprietà privata affermava, con pari chiarezza che l’uso dei beni, affidato alla libertà, è subordinato alla loro originaria destinazione comune di beni creati e anche alla volontà di Gesù Cristo, manifestata nel Vangelo. Tutti i successori di Leone XIII hanno ripetuto la duplice affermazione: la necessità e, quindi, la liceità della proprietà privata e insieme i limiti che gravano su di essa. Nella Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore nel 1948, all’art. 42 si legge: «La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata, può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale. La legge stabilisce le norme e i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.» Questo articolo, all’Assemblea Costituente, fu proposto, per mandato della Commissione preparatoria, dal deputato democratico-cristiano Paolo Emilio Taviani (1912-2001), professore di storia economica all’Università di Genova. Nella sua relazione, Taviani rammenta che la proprietà privata risponde alla natura delle cose, in quanto e solo in quanto mira a garantire la libertà e a permettere l’affermazione della persona umana. Ma la persona umana – proseguiva Taviani – non è sola su questa terra: essa è vincolata e dipende da tutti i suoi simili. La persona non può svolgere la sua missione senza il concorso delle comunità che la circondano e la aiutano a realizzare il suo destino. D’altra parte – continuava – non va dimenticato che alla base dell’ordine naturale dell’economia non sta soltanto il diritto di appropriazione privata, ma il diritto di tutti all’uso comune dei beni. La destinazione dei beni della terra all’uso comune è primaria rispetto al diritto di proprietà privata. Quindi – concludeva Taviani – la proprietà privata assume una duplice funzione: personale e sociale. San Giovanni Paolo II nell’Enciclica «Laborem exercens», promulgata il 14 settembre 1981, ricordava, tra l’altro, che la proprietà si acquista prima di tutto mediante il lavoro perché essa serva al lavoro. I mezzi di produzione – diceva ancora San Giovanni Paolo II – non possono essere posseduti per possedere, perché il titolo legittimo del loro possesso è che essi servono al lavoro; e che, servendo al lavoro rendono possibile la realizzazione del primo principio di quell’ordine, che è la destinazione universale dei beni e il diritto al loro uso comune. Per non cadere in strane amnesie, è bene ravvivare la memoria di questa antica e sempre nuova dottrina cristiana, che da San Benedetto ai giorni nostri, ci insegna cos’è la proprietà e il lavoro.