di Stefano Tarocchi · Nei discorsi del quarto Vangelo rivolti da Gesù ai discepoli, nella cena avanti la Passione, ha uno dei nuclei più significativi nella descrizione del pastore vero: «io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio” (Gv 10,11-18).
Dette parole hanno una premessa, talora considerata di minore importanza: «in verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti, ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,7-10).
Le due micro-unità narrative sono alla base di un insegnamento molto importante: Gesù è ad un tempo pastore e colui che si mette a guardia del gregge che gli è affidato, assumendone il ruolo di porta, cioè di vigilanza in prima persona su coloro che entrano dentro il recinto del gregge: si direbbe quasi a prezzo della sua vita.
Prima di lui ci sono stati soltanto ladri e briganti, ma le pecore non li hanno ascoltati: queste possono entrare e uscire dal recinto per trovare il pascolo, senza alcuna paura proprio perché c’è questa porta sicura. I ladri hanno non hanno un solo scopo, il rubare, ma anche l’uccidere e il distruggere. A difesa di essi solo, il Cristo, porta delle pecore, conduce alla vita, e alla vita senza limiti.
È per questa ragione che Gesù afferma di essere il vero pastore, ossia colui che è capace di dare la propria vita per le pecore. Al pastore si contrappone colui che ha uno stipendio per guardare alle pecore – il termine usato per sé non è negativo, ma finisce per diventarlo, nell’accezione di mercenario. Questi, al momento del pericolo – e quale maggior pericolo per le pecore di un lupo? –, egli abbandona le pecore anziché proteggerle.
Per di più, non è secondario che fra il pastore e le pecore si instauri la stessa comunione di ascolto reciproco: un “conoscere” che è molto di più di un interscambio di superficie: è realmente quello spazio che apre all’amore. Oltretutto, questo pastore ha il compito di ricondurre all’unità quel gregge che gli è stato affidato, comprendendo anche pecore che vengono da altri greggi, da altri recinti. Tutto ciò poggia però sul dono della vita che il pastore fa per le sue pecore seguendo il comando del Padre.
Ora un testo così ricco e carico di profondità pronunciato nel momento in cui Gesù sta per essere glorificato, cioè sta per andare incontro alla sua passione nel linguaggio del Vangelo secondo Giovanni, rischia di essere vanificato da un pericolo sempre in atto in una certa interpretazione. Di cosa parliamo? Quello di una semplificazione riduttiva e sostanzialmente irrispettosa.
Voglio dire che il vero pastore, il Cristo, in nessun momento e per nessuna ragione può essere confuso, se non per confronto, con coloro che svolgono nella comunità il ruolo di pastore, in particolare vescovi e presbiteri, e anche diaconi. Detto in altre parole non è rispettoso per il testo e il messaggio evangelico, anziché approfondirlo come è necessario soprattutto in questi tempi, spostarsi a parlare di vocazioni al ministero della Chiesa, dimenticando la reale figura del pastore e della porta, che il Vangelo ci presenta con chiarezza cristallina.
È solo lui, nello spessore della pagina giovannea a dare il senso dell’esser pastore. Ed è lui solo a dare il senso della nota immagine di papa Francesco dei pastori con “l’odore delle pecore”, “pastori in mezzo al proprio gregge”, e “pescatori di uomini”.
C’è un testo di sant’Agostino che riassume in maniera straordinariamente efficace l’immagine del pastore, all’interno e in comunione con il popolo di Dio: «sorreggetemi anche voi in modo che, secondo il precetto dell’Apostolo, portiamo l’un l’altro i nostri pesi, e così adempiamo la legge di Cristo. Se egli non condivide il nostro peso, ne restiamo schiacciati; se egli non porta noi, finiamo per morire. Nel momento in cui mi dà timore l’essere per voi, mi consola il fatto di essere con voi. Per voi infatti sono vescovo, con voi sono cristiano» (Discorso 340: nell’anniversario della sua ordinazione a vescovo).
Il pastore è anzitutto pecora del gregge di Cristo.