di Alessandro Clemenzia · Il saluto che Papa Francesco ha rivolto al Presidente e al Board of Trustees dell’Università di Notre Dame, negli USA (lo scorso 1 febbraio 2024), offre un’occasione preziosa per riflettere su uno dei temi odierni più scottanti: la dimensione educativa. Sin dall’inizio del suo saluto, egli ha citato il Beato Basil Moreau, secondo il quale «l’educazione cristiana è l’arte di condurre i giovani verso la pienezza». Ciò vuol dire che il fine di ogni progetto educativo non deve avere un mero scopo di natura accademica, ma deve puntare alla formazione integrale della persona, che a sua volta è totalmente protesa verso il raggiungimento della pienezza di sé. Il Papa presenta, con immagini molto efficaci, i tre linguaggi che nascondono il segreto della riuscita di un’autentica educazione: quello della testa, del cuore e delle mani: «Questo è il segreto dell’educazione: che si pensi quello che si sente e si fa, che si senta quello che si pensa e si fa, che si faccia quello che si sente e si pensa». Proprio per orientare le nuove generazioni verso la pienezza, è necessario tenere sempre conto dell’unità della persona, per evitare che quest’ultima cresca in modo schizzofrenico.
E qui Francesco si sofferma sui singoli linguaggi. Prima di tutto la testa. In un contesto sociale e culturale quale è il nostro, determinato da quel fenomeno chiamato “globalizzazione”, in cui si cerca di eliminare ogni confine, favorendo così un’intensificazione di relazioni internazionali e intercontinentali, le università cattoliche sono chiamate, tanto a intensificare collaborazioni tra differenti istituzioni accademiche, quanto ad assumere sempre di più un approccio interdisciplinare, al fine di ottenere, in modo sempre più approfondito e autentico, una visione globale della realtà, accordando i differenti campi di indagine. Ciò a cui le università cattoliche possono far riferimento per favorire un tale sviluppo, spiega il Papa, è la «ferma convinzione dell’intrinseca armonia tra fede e ragione, da cui scaturisce la rilevanza del messaggio cristiano per tutti gli ambiti della vita, personale e sociale». Molto interessanti queste parole: il rapporto tra fede e ragione è inteso come un’armonia intrinseca. Il concetto di “armonia”, più volte assunto da Francesco, allude al fatto che tanto la fede quanto la ragione non possano essere ridotti l’una all’altra, in quanto si tratta di elementi distinti tra loro. Tale armonia, tuttavia, non è qualcosa di estrinseco, ma è una componente essenziale, tanto della fede quanto della ragione. Non tenere conto di questo rapporto, significherebbe ignorare quanto è più caratteristico dell’esperienza cristiana, vale a dire l’incontro tra il messaggio biblico e la cultura ellenistica, che ha “informato” lungo i secoli la stessa autocoscienza ecclesiale.
L’altro linguaggio è quello del cuore, che chiede costantemente di essere dilatato. In questo senso l’università deve accompagnare le nuove generazioni a «coltivare un’apertura verso tutto quello che è vero, buono e bello». Tutto ciò è possibile se gli educatori sono capaci di comprendere le domande, i bisogni e i sogni di ciascun educando. L’apertura del cuore verso tutto ciò che è vero, buono e bello passa attraverso le domande che ciascuno costantemente si pone (e non sulle facili risposte), sui bisogni che si sentono e che lasciano talvolta in uno stato di incertezza e di precarietà (e non su una presunta pienezza già raggiunta), e infine sui sogni, che aprono l’interiorità della persona, mettendo in moto il dinamismo del desiderio. È proprio su questa base che si può contemporaneamente educare al dialogo e alla cultura dell’incontro, in quanto non si tratta di mere azioni pastorali esteriori, ma richiedono un coinvolgimento totale della propria interiorità, soprattutto se in essa vi è l’esperienza della fragilità.
L’ultimo linguaggio è quello delle mani. Più volte Papa Francesco, parlando alle diverse istituzioni accademiche, ha usato questa immagine, per significare che l’educazione chiede costantemente un impegno solidale, e dunque di sporcarsi le mani per “toccare” la sporcizia dell’umanità. Ed è proprio in quest’atteggiamento di apertura e di uscita che ciascuno può sperimentare l’incontro con Cristo; egli afferma: «Non possiamo rimanere chiusi entro le mura o i confini delle nostre istituzioni, ma dobbiamo sforzarci di uscire verso le periferie, per incontrare e servire Cristo nel nostro prossimo». Non si tratta, dunque, di assumere, personalmente e comunitariamente, un atteggiamento esteriore o una tendenza sociologica verso l’esterno, ma è chiesto di abitare il “fuori”, in quanto è proprio questo il luogo in cui è possibile incontrare Cristo. L’uscita verso le periferie, dunque, ha prima di tutto un significato cristologico; ed è dall’incontro con Lui che scaturisce il desiderio di vivere ogni giorno determinati da questa presenza. In questo consiste il senso più profondo di un impegno solidale: vivere costantemente in compagnia di una Presenza, che si mostra soprattutto attraverso le situazioni umane più svantaggiate dell’altro.
Con queste parole, pronunciate dal Papa a un’istituzione accademica, ci viene offerta la possibilità di riflettere sul significato dell’educazione come accompagnamento delle nuove generazioni a una pienezza di vita.