La scuola italiana nel Rapporto Eurispes tra tante (tristi) conferme e poche (belle) sorprese.

500 500 Stefano Liccioli
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di Stefano Liccioli · Alcune settimane fa è stato presentato il 2° Rapporto sulla Scuola e l’Università, edito da Giunti Scuola e realizzato dall’Eurispes, il noto istituto che ogni anno dal 1989, attraverso le pagine Rapporto Italia, «descrive il nostro Paese e i cambiamenti socio-economici e culturali in atto».

Lo studio precedente sul nostro sistema d’istruzione risale al 2003, un periodo di tempo molto lungo in cui nel mondo, nella nostra società e di riflesso pure nella scuola sono avvenuti tanti cambiamenti.

In una prima parte il Rapporto è composto da tre indagini distinte che fanno riferimento alle esperienze e le opinioni dei docenti italiani di Scuole ed Università pubbliche e private italiane che sono stati sondati attraverso specifici questionari, in tutto 4.827 (Scuola primaria e secondaria di primo grado: 1.789; Scuola secondaria di secondo grado: 842; Università: 2.196).

Sarebbero tanti gli spunti di riflessione offerti dalle risposte dei diversi insegnanti. Mi limiterò ad esaminarne alcune, quelle magari in cui mi sono riconosciuto di più oppure quelle con cui mi sono trovato più in disaccordo.

I docenti del primo ciclo (l’86,8% degli intervistati) lamentano, ad esempio, che la spesa pubblica destinata all’istruzione nel nostro Paese sia scarsa o del tutto insufficiente complessivamente. In effetti il loro parere non è infondato perché in Italia la voce del Pil relativa alla scuola negli ultimi venticinque anni si è assottigliata riducendosi dal 5,5% al 4%. Personalmente la questione che mi preoccupa quando si parla di soldi investiti nell’istruzione non è solo la loro progressiva diminuzione, ma anche il modo e le finalità per le quali questi vengono spesi. Spesso, infatti, i nostri istituti avrebbero bisogno di finanziamenti per opere di manutenzione degli edifici o per sostenere progetti che siano veramente utili per alunni ed alunne, invece si trovano ad avere fondi vincolati per altri obiettivi, stabiliti da chi ha non conoscenza diretta delle esigenze delle singole realtà. A volte ho l’impressione che il mondo della scuola sia in vari casi l’occasione per far girare l’economia del nostro Paese, senza però una prioritaria attenzione alle reali esigenze dei fruitori del sistema d’istruzione. Penso, per esempio, a tanti degli investimenti fatti per le apparecchiature informatiche e digitali dei nostri istituti, ma non per il personale in grado di mantenerli e renderli sempre funzionanti. In sintesi mi sento di dire che si spende poco per la scuola ed in diversi casi non per quello che servirebbe veramente. La tanto celebrata autonomia scolastica si scontra spesso con diktat imposti dell’alto o con paletti che, all’atto pratico, rendono particolarmente limitata la libertà d’azione di dirigenti scolastici e personale docente.

Inoltre in maniera appropriata docenti di ogni ordine e grado ritengono inadeguata la presenza di mediatori interculturali all’interno dei diversi istituti scolastici che nel corso degli ultimi tempi hanno visto invece aumentare la presenza di alunni ed alunne non italofoni. Anche in questo caso la tanto sbandierata politica dell’integrazione e dell’inclusione s’infrange nella reale difficoltà (per non dire l’impossibilità) di rendere l’italiano la lingua veramente comune ricordando che, come insegnava don Milani, è «la parola che fa uguali».

Un altro passaggio del rapporto che ci tengo a sottolineare riguarda gli eccessi di burocrazia che progressivamente appesantiscono sempre di più il mestiere dell’insegnante. Si legge: «Già nella scuola primaria e secondaria di primo grado il carico di incombenze burocratiche attualmente sottrae molto tempo, ma anche energie e concentrazione, al ruolo principale degli insegnanti, che dovrebbe essere quello formativo. Non emergono differenze importanti in relazione al tipo di scuola

in cui i docenti insegnano». Personalmente non posso che confermare quanto lamentato dai colleghi e cioè che lo svolgimento di mansioni amministrative e burocratiche, non didattiche, assorbe molto del tempo di un docente. Detto questo non possiamo neanche pretendere che la professione dell’insegnante rimanga immune da quell’aumento di adempimenti burocratici che sta contraddistinguendo tutti lavori e che il compito di un docente sia solo fare lezione: la società è in continuo cambiamento e le professioni, compresa quella dell’insegnante, anche.

Infine una considerazione riguardo alle discipline STEM (vale a dire le materie scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche). Lo studio riferisce che «la maggioranza degli intervistati ritiene che sia giusto insegnare le discipline STEM fin dalla scuola dell’infanzia, non solo perché esse sono sempre più importanti nel mondo del lavoro e nella vita quotidiana, ma perché svolgono la funzione di stimolare la curiosità e la passione per la scienza e la tecnologia». A mio avviso l’attenzione alle discipline scientifiche non può comportare che quelle umanistiche siano trascurate e messe in secondo piano in nome di un nuovo scientismo che tradisce la storia culturale del nostro Paese, ma che soprattutto non aiuta un’autentica formazione integrale delle nuove generazioni.

L’indagine sulla Scuola e Università è completata da «una serie di interviste in profondità incentrate sui temi fondamentali dell’Istituzione scolastica e universitaria odierna» che consentono una riflessione critica sui dati offerti dai sondaggi.

Concludo con quanto ha detto il presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara, in occasione della presentazione del Rapporto l’8 febbraio 2024:«Negli ultimi vent’anni – spiega il Presidente dell’Eurispes – sono stati sistematicamente smontati progetti di riforma della scuola, sopravvissuti solo pochi giorni alla caduta delle forze di governo che li avevano partoriti». Ritengo che la causa di tanti dei mali della scuola italiana sia proprio in questa discontinuità d’indirizzo politico che, da quasi trent’anni, la sta caratterizzando generando, per citare Heidegger, tanti “sentieri interrotti” che non portano da nessuna parte. Se davvero interessa il sistema d’istruzione del nostro Paese e con esso la formazione dei giovani e conseguentemente il futuro dell’Italia, occorre che tutti, partiti politici e sindacati in primis, mettano da parte le divisioni ideologiche e finiscano di considerare la scuola come un bacino elettorale o di tessere per cercare e realizzare l’autentico bene dei nostri giovani in campo formativo. L’alternativa è assumersi il rischio di un disastro educativo di cui vedremo gli effetti fra qualche decennio quando sarà troppo tardi, però, per trovare rimedi.

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Stefano Liccioli

Tutte le storie di: Stefano Liccioli