di Stefano Liccioli · Canta Paolo Conte:«Quanta strada nei miei sandali, quanta ne avrà fatta Bartali». E Bartali di strada ne ha fatta davvero tanta nella sua vita: non solo in senso letterale (sulle strade del Giro d’Italia o del Tour de France) o in senso metaforico (dal momento che ha vissuto 86 anni), ma perché “Ginettaccio” (uno dei soprannomi del nostro campione che ne mette in risalto il suo carattere forte, a tratti un po’ burbero) non è stato certo un uomo che si è limitato ad essere spettatore degli eventi a lui contemporanei. Quando c’era bisogno di lui, non si è mai tirato indietro, neanche quando la strada della vita diventava in salita.
Si potrebbe, dunque, scrivere tanto di Bartali come uomo e come sportivo. Passato da poco il Giorno della Memoria, in questa sede voglio ricordare il suo aiuto per salvare le vite di molti ebrei ed in generale il contributo che ha dato alla pace o, per dirla con quel linguaggio evangelico a lui caro, il suo esser stato “costruttore di pace”. Già, perché Gino fu un cattolico fervente (da qui l’altro soprannome, “il pio”) che dedicava ogni sua vittoria a Dio ed alla Madonna, come annotò in un proprio resoconto il giornalista Franco Monza, spia fascista dell’OVRA:«Un tipo molto strano questo Bartali che ad ogni vittoria ringrazia sempre Dio e la Madonna invece di dedicare il successo al nostro Duce». Gino non fece eccezione neanche quando nel 1938 vinse il Tour de France, infastidendo non poco Mussolini che lo ricambiò ignorando il suo trionfo, mentre riservò tutti gli onori alla nazionale di calcio che in quell’anno aveva vinto la Coppa del Mondo e che si era dimostrata più ossequiosa nei confronti del regime facendo il saluto fascista al momento della premiazione.
Il 1938 è anche l’anno in cui in Italia vennero promulgate le leggi razziali e quando, dopo l’8 settembre 1943, con l’occupazione nazista dell’Italia la situazione degli ebrei diventò particolarmente pericolosa, Bartali si schierò dalla parte giusta. Egli collaborò, infatti, a quella rete di solidarietà voluta dall’Arcivescovo di Firenze, il Cardinal Elia Dalla Costa, per proteggere gli ebrei, una rete che vedeva in istituti religiosi e conventi dei punti nevralgici di aiuto. Fu così che Gino, proprio su richiesta di Dalla Costa, s’impegnò in delle missioni segrete. Nello specifico Bartali a partire dal 1943 compì, con il pretesto di doversi allenare, numerosi viaggi tra Firenze ed Assisi trasportando di nascosto nel telaio della bicicletta documenti e passaporti falsi destinati a fornire una nuova identità a circa 800 persone ebree: egli mise a rischio la propria vita per salvarle dalla deportazione nei campi di sterminio.
In quello stesso periodo Gino dimostrò tutto il suo coraggio e la sua generosità anche nascondendo prima nel suo appartamento, poi in una cantina di sua proprietà, i Goldenberg, una famiglia di ebrei fiumani composta dal padre, la madre, una figlia ed un figlio, il piccolo Giorgio.
Nel frattempo Bartali cominciò ad essere sospettato di partecipare attivamente alla rete di aiuti per gli ebrei, anche a causa di alcune lettere intercettate da cui si poteva evincere l’impegno del nostro campione che proprio alla fine di luglio del 1944 fu arrestato dalla banda del maggiore Mario Carità e condotto a Villa Triste, un «luogo sinistro e che incuteva timore» (sono parole di Gino), a Firenze, sulla via Bolognese. Dopo due giorni terribili di reclusione, più volte interrogato, egli venne rilasciato per intercessione di un milite repubblichino, ma rischiò seriamente la fucilazione.
È imponente la documentazione che dimostra tutta questa attività svolta da Bartali, a cominciare dalla testimonianza diretta di Giorgio Goldenberg che fu determinante perché nel luglio 2013 Gino venisse dichiarato “Giusto tra le nazioni” dallo Yad Vashem, il museo per la memoria della Shoah che ha sede a Gerusalemme. Ma già nel 2005 il Presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi aveva consegnato alla moglie di Bartali, Adriana, la medaglia d’oro al valore civile (postuma) al defunto campione per avere aiutato e salvato tanti ebrei durante la seconda guerra mondiale.
Non è un caso se tutti questi riconoscimenti siano stati attribuiti a Gino solo dopo la sua morte. Infatti egli quando era in vita non raccontò a nessuno, se non per brevi accenni a qualche familiare, ciò che aveva fatto perché era convinto che “il bene si fa, ma non si dice”.
C’è un altro momento in cui la vita di Bartali s’incrociò con le vicende drammatiche dell’Italia. Era il 14 luglio 1948 e l’allora segretario del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti fu ferito gravemente, con tre colpi di pistola, da un giovane esaltato anticomunista. Il clima politico diventò subito incandescente con manifestazioni e scioperi che si propagarono per tutto il nostro Paese facendo preoccupare il governo per la tenuta dell’ancora debole assetto istituzionale italiano. In quei giorni si stava correndo la trentacinquesima edizione del Tour de France e Bartali ci partecipava, ma aveva un distacco di ventuno minuti dalla maglia gialla, Louison Bobet: un distacco, difficile, quasi impossibile da recuperare, considerato anche il fatto che Gino aveva 34 anni ed era uno dei corridori più anziani della corsa.
La sera dell’attentato a Togliatti il presidente del consiglio Alcide De Gasperi telefonò a Bartali dicendo che in quel momento così difficile l’Italia aveva bisogno di buone notizie. Il campione capì e mise ancora una volta il suo talento di ciclista a servizio degli altri. Nelle due tappe successive recuperò il distacco da Bobet e conquistò la maglia gialla, aprendosi così la strada alla vittoria del suo secondo Tour de France.
È riconosciuto da molti che l’impresa di Bartali, insieme agli appelli di Togliatti dal letto dell’ospedale a mantenere la calma, contribuì a distogliere l’attenzione degli italiani dall’attentato di cui era stato vittima il segretario del PCI ed a placare una tensione politica e sociale che stava portando l’Italia sul baratro della guerra civile.
Al rientro in patria Bartali, in segno di riconoscenza per ciò che aveva fatto, fu ricevuto da Papa Pio XII e dal presidente De Gasperi, un omaggio che dieci anni prima Mussolini non aveva voluto concedergli.
Il campione si ritirò dal ciclismo professionistico nel 1954 anche se continuò ad interessarsi, a vario titolo, al mondo della bicicletta fino alla sua morte avvenuta nel 2000.
Accanto ai ricordi ufficiali di Bartali ne ho anche alcuni personali in cui lo rivedo, ormai come un anziano signore, a camminare, spesso insieme alla moglie, per le strade di Gavinana, il quartiere di Firenze dove entrambi abitavamo.
La statura umana di Ginettaccio è un prezioso monito anche per i nostri tempi, in particolare per le nuove generazioni. Egli c’insegna l’importanza di fare bene il proprio dovere, lì dove si è, di sapersi schierare nei momenti difficili dalla parte giusta che significa difendere i più deboli. Bartali è un esempio di determinazione, altruismo e coraggio, il coraggio di essere capaci di andare controcorrente, anzi contromano, sfidando la mentalità dominante.
In una società come la nostra in cui ci si affretta a mettersi in mostra ed ad ostentare quello che si fa, Bartali ci rammenta che “il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca”. In un contesto come quello odierno in cui si parla tanto dell’utilità dell’autocritica e della resilienza, il nostro campione credeva (e viveva) davvero in questi valori come testimonia il suo celebre motto:«L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare».
Infine a quanti pensano che ciò che conta nella vita sia solo fare soldi, Bartali ci ricorda (ancora una volta sono sue parole) che «l’ultimo vestito è senza tasche». Sarà anche per questo che per essere sepolto non volle che gli fosse messa una delle tante maglie con cui aveva vinto importanti competizioni sportive, ma solo lo scapolare bianco dei terziari carmelitani di cui faceva parte: una sorta di semplice tunica bianca, senza tasche appunto.