Se la scuola diventa solo un problema e non un’opportunità.

500 495 Stefano Liccioli
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di Stefano Liccioli · Quasi alla fine del mese di agosto è apparsa sull’edizione milanese del “Corriere della Sera” una lettera aperta di un neo maturato (di cui non si conosce il nome) di un liceo classico milanese che ha voluto «condividere alcune riflessioni sui cinque anni di scuola che ho passato e, in base a queste, sul sistema scolastico italiano in generale». La lettera si presentava come uno sfogo ed un’invettiva soprattutto contro l’impostazione della scuola italiana, ma, mi viene da dire, anche contro il suo istituto dal momento che gli episodi raccontati fanno riferimento ad esperienze personali. Riporto solo un passaggio da cui si può evincere il pensiero del ragazzo:«Dopo cinque anni dove sono stati questi gli insegnamenti datimi, in cui era considerato non solo normale ma perfino giusto umiliare e far piangere i propri studenti, per delle aspettative che non gli si chiede ma gli si ordina di rispettare, capitemi quando dico che non sono soddisfatto di questo percorso».

Alla ripresa delle lezioni, alcune settimane fa, ho letto questo ed altri passaggi della lettera con i miei alunni e le mie alunne chiedendoli se si riconoscessero nelle parole del loro quasi coetaneo e nella sua valutazione del sistema scolastico italiano. Quasi tutti hanno detto che si è trattata di un’esperienza particolare, per certi versi estrema, che è sbagliato generalizzare.

Ho incalzato i miei studenti facendoli presente che negli ultimi tempi si parla sempre di più di fobia scolare della paura, cioé, di diversi ragazzi e ragazze nell’andare a scuola che li costringe spesso anche al ritiro sociale. Situazioni che potrebbero dare ragione al maturato milanese nel testimoniare un disagio più o meno marcato che si vive nelle nostre aule.

Personalmente ritengo che, effettivamente, la nostra società sia sempre più ossessionata dalla performance e terrorizzata dal fallimento, ma si tratta di problemi di cui la scuola è il terminale e non la causa che, a mio avviso, è rintracciabile nei modelli che sono predominanti nella nostra cultura. Proporre, come fanno alcuni, una scuola senza voti non è il rimedio al senso di frustrazione che spesso gli studenti sperimentano quando le valutazione didattiche attribuite ricevute non corrispondono alle proprie attese. Si tratterebbe, secondo me, di una scorciatoia, di una strategia per evitare il problema la cui soluzione consiste invece nello stare accanto ad i giovani, aiutandoli a rialzarsi quando cadono.

Il fatto che la scuola ponga delle richieste (sostenere delle verifiche scritte o orali, svolgere dei compiti) contribuisce al processo formativo di ragazzi e ragazze. Infatti uno dei momenti importanti nella crescita di un bambino è quando riconosce che non tutto gli è dovuto, ma che deve adempiere alle richieste che la vita gli presenta e che può dare qualcosa alle persone che lo circondano.

Il mio confronto con i miei alunni è continuato ed alcuni di loro hanno ammesso che a volte sperimentano una certa difficoltà a comunicare con gli adulti, nella fattispecie gli insegnanti, sentendoli estranei ai loro problemi. Credo che la questione importante sia proprio qui: la capacità dei più grandi di stare accanto alle nuove generazioni. Il ragazzo milanese, prima di scrivere ad un quotidiano, avrà provato ad parlare delle stesse questioni con i genitori, i docenti, qualche altra persona più grande? Mi dispiacerebbe sapere il suo disagio non è stato accolto da nessuno e che la sua ultima speranza per essere ascoltato sia stata quella di scrivere una lettera ad un quotidiano. Spesso da più parti si chiedono indicazioni su come affrontare in maniera corretta le problematiche di ragazzi e ragazze, dimenticando che il primo passo (e quello più importante) è stabilire con loro una relazione in cui si sentano accolti, ascoltati e sostenuti. Si tratta di un compito non facile perché come affermava il documento preparatorio alla XV assemblea generale ordinaria del sinodo dei vescovi sul tema “I giovani, la fede ed il discernimento vocazionale”:«Accompagnare i giovani richiede di uscire dai propri schemi preconfezionati, incontrandoli lì dove sono, adeguandosi ai loro tempi e ai loro ritmi; significa anche prenderli sul serio nella loro fatica a decifrare la realtà in cui vivono e a trasformare un annuncio ricevuto in gesti e parole, nello sforzo quotidiano di costruire la propria storia e nella ricerca più o meno consapevole di un senso per le loro vite». Sottolineo questo “incontrare i giovani lì dove sono” che significa accoglierli come sono per aiutarli a diventare così come dovrebbero essere, non pretendendo il contrario e cioé che siano già come dovrebbero essere perché possiamo entrare in rapporto con loro. In tal senso lo sguardo dell’adulto, dell’educatore deve essere un po’ come lo sguardo paziente che Dio ha su ciascuno di noi, un Dio che ci prende con i nostri difetti e le nostre mancanze, ma che vuole tirare fuori da noi il meglio di noi stessi.

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Stefano Liccioli

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