di Francesco Vermigli – In occasione del viaggio apostolico in Ungheria svoltosi poche settimane fa, papa Francesco ha tenuto il 30 aprile un discorso davvero interessante alla Facoltà di Informatica e Scienze Bioniche dell’Università Cattolica Péter Pázmány a Budapest. Vogliamo presentare questo discorso, cercando nelle sue parole spunti utili per la riflessione intorno alla cultura odierna.
Notiamo infatti che il tema dell’intervento è stato dedicato proprio alla cultura, ma avendo tale discorso un destinatario particolare: tutta la comunità accademica cattolica ungherese certamente; ma in modo specifico coloro che abitano la cultura scientifica, quella tutta tesa – si direbbe costitutivamente – tra la constatazione che qualcosa si può fare e la domanda se quella stessa cosa sia giusto farla. A questa ambivalenza della cultura della τέχνη si volge il discorso del papa.
Tutto inizia da un richiamo al pensiero di Romano Guardini, che – come ben sappiamo – si pone come il riferimento ideale capace di fare da ponte tra la formazione intellettuale di papa Benedetto XVI e l’ispirazione di larghe parti della pastorale di papa Francesco. Il rimando al grande teologo italo-tedesco offre a Bergoglio lo spunto per distinguere due fondamentali modalità di intendere la cultura: quella che sorge dalla contemplazione stupita del reale da un lato e quella che si pone come dominio del reale dall’altro. La distanza è grande tra le due tipologie di cultura, il punto di partenza è abissalmente diverso; e, se così è, inevitabilmente anche i frutti saranno estremamente diversi. La prima sapienza riconosce dei limiti a se stessa, che sono anche limiti etici; la seconda non conosce alcun limite se non il solo potere o non poter fare tecnicamente qualcosa: in altri termini, l’unico limite che conosce questa seconda tipologia di sapienza o cultura consiste nel fatto che qualcosa non si fa, perché ancora non si può fare; ma quando verranno le conoscenze e le capacità tecniche per farlo, a quel punto si farà perché (finalmente) si potrà fare. Da un lato la meraviglia e lo stupore che mai si esauriscono, ma che anzi rinnovano sé stessi nel progredire della sapienza; dall’altro una ὕβρις che non si accontenta e in cui una realizzazione tecnica non è altro che una tappa di una conquista che tende sempre più al dominio del reale. Perché qui c’è la volontà di potenza su un mondo che deve assomigliare alle nostre più grandi aspirazioni e illusioni; là c’è la meraviglia e lo stupore, per una realtà che quasi miracolosamente si dispiega a colui che la guardi con cuore puro e sguardo autentico e mente lucida e umile.
Senza che via sia un rimando esplicito al romanzo gotico di Mary Shelley Frankenstein o il moderno Prometeo, il papa pare alludere al pericolo sempre presente di una tecnica che si rivolge contro il suo stesso creatore; finendo per perdere ogni riferimento di utilità e di servizio per ciò che è umano. A ben vedere le vicende recentissime assai problematiche della IA (Intelligenza artificiale) mostrano ad un tempo l’attualità di quel romanzo e quella del discorso del papa. Qui, nelle parole del papa, il rischio più grande della tecnica che si ribella al suo creatore, consiste nel togliergli la libertà e farlo dipendere da se stessa. Eterogenesi dei fini: un uomo che brama dominare sul reale attraverso la macchina e rischia di farsi dominare dalla macchina stessa.
Dall’altra parte c’è il “mistero della vita” e della cultura che a questo mistero con umiltà e perseveranza si sottomette e si adegua. Ci chiediamo se uno dei principi più noti a cui si ispira la pastorale dell’attuale papa – mi riferisco quella secondo la quale la realtà è superiore all’idea (Evangelii gaudium, 231-233) – non sia in realtà capace anche di ispirare questa visione della cultura che nasce e sorge dalla contemplazione (contemplazione che sarà grata, se viene da un cuore credente) della realtà per come essa si dà a vedere e si mostra. Perché qui è davvero la priorità del reale sull’ideale, di una cultura che si fa serva della realtà e della verità, si pone in ascolto del creato; rispettandolo come materia che – a chi sappia scorgerlo – mostra i segni del suo Creatore.
Il papa individua alcune caratteristiche di questa cultura: la fecondità, l’umiltà, la libertà. Feconda è la cultura che sa contemplare e accettare il reale; feconda di relazioni, perché questa cultura non è individualistica e auto-referenziale, ma crea connessioni tra le persone. È umile, perché non adatta con protervia e superbia la realtà ad un progetto, ma l’accoglie e la desidera comprendere sempre più in profondità. Ed è libera, perché non è sottomessa a interessi di parte o a interessi economici e non è schiava del successo tecnologico ricercato a tutti i costi. È libera, perché si fonda sulla verità, secondo le indicazioni di Gesù – citato dallo stesso papa – che afferma che «la verità vi farà liberi» (Giovanni 8,32).
È la cultura che nasce dal limite, quella cultura cioè che sa riconoscere il limite: limite dell’uomo che conosce, ma che nell’impegno e nella contemplazione con meraviglia vede dispiegarsi la verità più intima e misteriosa del reale.