di Francesco Romano – Il concetto di cittadinanza romana ha conosciuto una lunga evoluzione a iniziare dalle prime tribù dell’Urbe che utilizzavano il nome di Quiriti per dare riconoscimento alla loro identità di cittadini romani. A seguito dello scontro e della loro fusione, i Latini di Romolo e la città sabina di Curi divennero un solo popolo condividendo il governo della nascente Roma.
In epoca arcaica l’ambito di applicazione del diritto romano riguardava soltanto la civitas e i cittadini romani con alcune eccezioni tra gli stranieri riguardo allo ius connubii che permetteva di contrarre un valido matrimonio solo tra persone di cittadinanza romana, e per lo ius commercii, di compiere atti giuridici di natura commerciale.
La cittadinanza romana è un istituto giuridico e non un principio etico che prende forma attraverso una lenta evoluzione storica condivisa, per esperienza vissuta, da un raggruppamento di interessi comuni da cui ha origine la nozione di cives romani riuniti in societas. Uomini liberi capaci di perseguire un’azione comune senza rinunciare ai
diritti personali, alla loro lingua e ai loro dei. Questa cittadinanza romana fu capace di adattarsi alle situazioni del momento senza essere esclusiva o totalitaria.
Le conquiste riportate da Roma non modificarono questa regola aurea. La patria romana si adattava alle province conquistate favorendo la disponibilità a diventare cittadini romani senza dover rinunciare a quanto si era stati, ma assicurando la compatibilità della nuova cittadinanza con i diritti locali.
Roma proponeva alle popolazioni sottomesse le sue istituzioni, uno statuto giuridico più vantaggioso insieme al diritto di cittadinanza, senza limite territoriale ed etnico, anche senza raggiungere l’uguaglianza assoluta.
Non era possibile avere una duplice cittadinanza, ma la preminente maiestas del vincitore popolo romano si adattava alle istituzioni locali con il riconoscimento e l’adesione da parte dei popoli soggetti. Il diritto di cittadinanza si basa sul concetto di libertà personale. Per Cicerone libertà e cittadinanza sono un binomio inscindibile: “secondo il nostro diritto, nessuno può cambiare cittadinanza contro la sua volontà. Ma si può cambiarla, se si vuole, posto che si sia adottati dalla città dalla quale si desidera divenire cittadino. Però dal nostro diritto civile è vietato appartenere a due città: non si può restare cittadini di una città quando si è solennemente dichiarato di essere cittadini di un’altra. Nessuno tra noi può essere cittadino di più di una città, poiché la differenza delle città implica necessariamente la diversità delle leggi. Nessuno può rimanere cittadino di Roma contro la propria volontà. È questo il più fermo fondamento della nostra libertà: essere padroni di conservare i propri diritti o rinunciarvi (Cicerone, Pro Balbo, 12-13)
Con questo sistema il processo di integrazione condotto da Roma, oltre alle province italiche, si estese anche a tutte quelle più lontane. Quanti del popolo vinto accettavano la cittadinanza romana potevano continuare a esercitare i loro diritti particolari e allo stesso tempo accedere a uno statuto più elevato che li rendeva partecipi della maiestas del popolo romano.
All’estensione della potenza romana si accompagnava una sorta di nazionalità comune, una visione politica universale. La concessione della cittadinanza nelle province delle popolazioni sottomesse diventava per Roma un mezzo straordinario di governo per incentivare e ricompensare i servizi svolti nell’esercito, le alleanze stipulate, la fedeltà politica. La cittadinanza romana è stata anche uno strumento di coesione interna e di pace sociale.
L’organizzazione provinciale inizialmente non prevedeva la cittadinanza per gli abitanti delle province che restavano sudditi “peregrini”, cioè privi di cittadinanza, e non seguivano il diritto romano, ma continuavano a praticare i loro istituti secondo il principio della personalità del diritto.
La Lex Julia de civitate Latinis et sociis danda, nel 90 a.C. garantiva la cittadinanza romana a coloro che erano in possesso dello jus Latii e agli alleati che non si erano ribellati. Le norme si applicarono a tutta la Penisola.
In epoca imperiale gli imperatori emanarono numerose norme applicabili esclusivamente alle province. Nel 212 d. C. la Constitutio Antoniana estese la cittadinanza romana a tutti i cittadini dell’Impero portando a compimento il lungo
processo di unificazione delle condizioni giuridiche. Ogni uomo libero venne riconosciuto cittadino romano con la conseguenza che il diritto romano divenne il diritto di tutto l’Impero senza sopprimere le conseguenze materiali della conquista. Per esempio con la vittoria, su tutto il territorio provinciale divenuto possesso del popolo romano, veniva percepita l’imposta dovuta al vincitore, l’ineguaglianza fiscale andava sempre a beneficio del popolo romano. Per raggiungere questo scopo il censimento di persone e cose in ogni provincia veniva effettuato scrupolosamente.
Lo Stato non prendeva le sembianze di una città vittoriosa, superiore per cultura e razza, bensì accresceva la sua potenza con l’aggregazione di comunità locali subordinate a Roma conservando la propria vita, ma con la possibilità di adottare le istituzioni di Roma. Il genio romano inventò uno Stato che passava dall’esclusivismo delle antiche
città di Roma a una nuova concezione basata sul consenso e l’equità giuridica, ma senza raggiungere l’uguaglianza piena. La comunità romana si propose come civiltà inclusiva, come comunità umana da considerare un privilegio l’acquisizione del diritto di cittadinanza che divenne molto ambito da un numero crescente di città e popoli.
La concessione della cittadinanza è stato il tratto distintivo della politica di Roma rispetto a quella comunemente annessionista messa in atto dai popoli vincitori dando ai paesi conquistati la possibilità di amalgamarsi in una medesima forma costituzionale come era già avvenuto per le città italiche conquistate. La cittadinanza romana consentiva di accedere allo statuto personale, ma senza modificare le condizioni giuridiche della regione in cui si viveva. Essa offriva la possibilità di accedere alle cariche pubbliche, agli affari dello Stato e a favorire la formazione di una classe privilegiata locale affidandole la responsabilità dell’amministrazione degli indigeni in cambio di privilegi.
Questa classe sociale elitaria nelle province adottava usanze politiche, costumi e modo di vita dei Romani favorendo un sistema di vita comune che da un capo all’altro dell’Impero andava realizzando una profonda integrazione rispetto alla patria romana.
Quindi, non solo la concessione di un nuovo statuto giuridico personale migliore, né una nuova struttura politica, bensì la promozione personale proposta alle élites locali dell’amministrazione diretta delle province che era espressione di una civiltà unitaria, la quale senza essere imposta da Roma si sviluppava spontaneamente. La promozione personale delle élites provinciali è stato un mezzo con cui Roma ha suscitato il bisogno nelle province di romanizzarsi da far dire a Plinio rivolto ai provinciali “prendete dunque piacere ad assumere gli onori e le cariche. Entrate nella città romana. I vincoli che questa crea faranno si che nessuno più somigli a un albero privo di foglie e di rami. Tutti godranno delle stesse attenzioni, tutti saranno innalzati dagli onori aumentati” (Plinio, Panegirico di Traiano, 39, 5).
Senza pregiudicare lo statuto proprio dei popoli sottomessi, la cittadinanza romana offriva alle province dei vantaggi supplementari. Diventavano nuovi cittadini romani conservando i diritti alle cariche civili e religiose del territorio. Di grande rilievo il loro matrimonio, assimilato al connubium romano, veniva riconosciuto come legittimo dando la possibilità di trasmettere la cittadinanza ai loro discendenti, beneficiare della patria potestas romana, acquisire la proprietà esente da imposte sul territorio italico, continuare a beneficiare dei loro vantaggi derivanti dal loro diritto originario. Questa civiltà unitaria si è sviluppata spontaneamente conservando le originalità delle province, ma incrementando il desiderio delle popolazioni provinciali di integrarsi alla patria romana.
Il popolo romano riconosce nella sua storia la volontà degli dei, ma il suo avvenire è da rintracciarsi nel mantenimento delle tradizioni provinciali. Per quanto grande sia stata la sua potenza, per il cittadino romano il suo successo sarà sempre da riferire alla pratica delle sue tradizioni. Cicerone era nato ad Arpino, un municipio che aveva liberamente conservato le sue istituzioni. Dopo la sua lunga carriera a Roma da uomo delle istituzioni, nel 49 a. C. ritorna ad Arpino nel territorio degli Osci, la patria dei suoi antenati. Per Cicerone è possibile avere due patrie: “ogni abitante di un municipio ha due patrie, l’una naturale, l’altra politica. Noi riteniamo nostra patria sia il luogo in cui siamo nati sia la città che ci ha conferito la qualità dei suoi membri. Quest’ultima è necessariamente oggetto di un amore più grande, infatti è la res publica, il bene comune di tutta la cittadinanza. Per essa dobbiamo saper morire, dobbiamo consacrarci interamente a essa. Tutto quanto è nostro le appartiene, bisogna sacrificarle tutto. Ma la patria che ci ha generati ha tuttavia una dolcezza quasi uguale e io non la rinnegherò mai. Il che non impedisce che Roma sia la mia grande patria, nella quale la piccola patria è contenuta tutta intera” (Cicerone, De legibus, II, 2, 5).
Virgilio nelle Georgiche utilizza l’immagine delle api la cui esistenza è completamente destinata a quella dell’alveare e le designa con il nome di Quiriti, cives romani, per raffigurare fuori di metafora che Roma è come un alveare le cui api sciamano verso il mondo offrendo a tutti i popoli dell’impero un modello di vita con l’offerta della cittadinanza (Virgilio, Georgiche, IV, 200-209).
La più bella vittoria che Roma abbia riportato non è avvenuta a fil di spada, ma in modo pacifico, con la politica, attraverso la concessione della cittadinanza romana che ha permesso di diffondere la “romanità” tra le province dell’impero e di suscitare il desiderio dei sudditi di acquisire il diritto di cittadinanza per sentirsi non più “peregrini”, ma integrati alla patria romana.