di Andrea Drigani · Quest’anno ricorre il 150° anniversario della morte di Alessandro Manzoni (1785-1873), in questa circostanza vorrei presentare alcune annotazioni sulla lettura che egli fa degli scritti di Niccolò Machiavelli (1469-1527).
L’opera è cui è legata principalmente la fama di Machiavelli è, come noto, «Il Principe», pubblicato cinque anni dopo la sua morte, nel 1532, «cum gratia e privilegio» di Papa Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici (1478-1534).
Ma nonostante il breve pontificio di approvazione, diversi teologi cattolici espressero fortissime contestazioni al pensiero del «Segretario Fiorentino», tra questi il cardinale Reginald Pole (1500-1585) e i vescovi Gerolamo Orosio (1506-1580) e Ambrogio Caterino Politi (1448-1553).
Forse anche per queste sollecitazioni «Il Principe» viene inserito, nel 1559, sotto il pontificato di Paolo IV, al secolo Giampietro Carafa (1476-1559), nell’ «Index librorum proibitorum», dal quale verrà tolto nel 1948, sotto il pontificato di Pio XII, al secolo Eugenio Pacelli (1876-1958).
Ma le critiche al Machiavelli non vennero solo da parte cattolica, ma pure dal campo protestante. Nel 1576, infatti, il calvinista Innocent Gentillet (1535-1588), edita a Losanna, una dura requisitoria contro il «Segretario fiorentino».
L’avversione contro il Machiavelli si reperisce anche in ambienti diversi e lontani da quelli religiosi, come in quello dell’Illuminismo, basti pensare all’«Antimachiavell» di Federico II di Prussia (1712-1786) con la prefazione di Voltaire (1619-1778), un violento libello che ricalca antiche censure.
Col passare del tempo si principia a considerare che il «Segretario fiorentino» non solo sia il distruttore della morale, ma colui che osserva e studia, attraverso i fatti («la verità effettuale») i metodi e le istituzioni della politica.
Il gesuita Girolamo Tiraboschi (1731-1794) autore di una celebre «Storia della letteratura italiana», uscita in sedici volumi tra il 1787 e il 1793, osserva che anche se non si possono ignorare le sue «ree massime», Machiavelli «si dimostrò uno dei più profondi e più esperti politici che mai siano vissuti, e i Discorsi sono pieni di riflessioni giustissime, che scoprono il raro genio di chi le scrisse».
Nell’Ottocento i giudizi più severi sul «Segretario fiorentino» sono formulati da coloro che di solito vengono indicati come cattolici-liberali: Gino Capponi (1792-1876), Antonio Rosmini (1797-1855), Cesare Cantù (1804-1895) e Cesare Balbo (1789-1853). Machiavelli è, nuovamente, accusato di essere portatore di una concezione pagana, quindi anticristiana, della politica.
In una posizione più meditata e più equilibrata sembra collocarsi Alessandro Manzoni. Il cattolicesimo di Manzoni ha una connotazione che forse non è giansenista, ma è sicuramente agostiniana, pertanto la vita morale del credente deve discendere dalla fede in Gesù Figlio di Dio. Secondo Manzoni la morale perfetta non può che essere d’origine teologale.
Manzoni respinge del Machiavelli non tanto il contrapporsi alla morale, quanto il prescindere dalla morale, anche se da storico è tutt’altro che indifferente alla «verità effettuale» che però non va solo descritta, ma deve essere interpretata «sub lumine fidei», cioè alla luce della Provvidenza.
Manzoni affronta il Machiavelli in tre delle sue opere. Nel capitolo XXVII dei «Promessi sposi», s’incontra il personaggio di don Ferrante, lo sposo di donna Prassede: «Ma che cosa è mai la storia, diceva spesso don Ferrante, senza la politica? Una guida che cammina, cammina, con nessuno dietro che impari la strada, e per conseguenza butta via i suoi passi: come la politica senza la storia è uno che cammina senza la politica. C’era dunque ne’ suoi scaffali un palchetto assegnato agli statisti…Due però erano i libri che don Ferrante anteponeva a tutti e di gran lunga…l’uno il «Principe» e i «Discorsi» del celebre segretario fiorentino: mariolo, sì, diceva don Ferrante, ma profondo; l’altro la «Ragion di Stato» del non men celebre Giovanni Botero; galantuomo, sì, ma acuto».
Manzoni, poi, riprende il caso Machiavelli nelle «Osservazioni sulla morale cattolica» quando rileva che «il Machiavelli non voleva l’ingiustizia sia astuta, sia violenta, come mezzo né unico, né primario ai fini proposti. Voleva l’utilità, e la voleva o con la giustizia, o con l’ingiustizia, secondo gli pareva che richiedessero i diversi casi» e concludeva che «Un così brutto miscuglio negli scritti d’un così grande ingegno non venne altro che dall’aver lui messa l’utilità al posto supremo che appartiene alla giustizia».
Manzoni, per la terza volta, parla del «Segretario fiorentino» nel discorso «Del romanzo storico e in genere dei componimenti misti di storia e d’invenzione» laddove ribadisce che Machiavelli è «osservatore così vigilante e profondo» eccetto quando «prende per regola suprema de’ i suoi consigli l’utilità: regola iniqua e assurda è un tutt’uno, e per la quale per conseguenza, non c’è ingegno che possa andare al fondo di nulla».
Per Manzoni (e questa forse potrebbe essere una conclusione) Machiavelli dà una visione lucida, concreta, precisa della realtà politica, ma senza un afflato morale.