di Alessandro Clemenzia · «Il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio». Queste parole di papa Francesco, pronunciate in occasione della Commemorazione del 50.mo anniversario dell’Istituzione del Sinodo dei Vescovi (17 ottobre 2015), hanno segnato l’autocoscienza della Chiesa attuale, al di là delle proprie visioni ecclesiologiche; basti anche soltanto verificare l’amplissima bibliografia uscita in materia, dove ogni autore – come è normale che sia – ha tentato di offrire un personale contributo, diversificandosi dalle impostazioni e interpretazioni di altri studiosi.
Al termine “sinodalità”, talvolta, viene data così grande enfasi da legarlo ad un altro termine essenziale per la Chiesa, e cioè quello di “riforma”; in questa direzione, per alcuni la Chiesa è una realtà che dovrebbe riformarsi costantemente in modo sinodale, per altri, la sinodalità diventerebbe quel principio attraverso cui riformare le strutture ecclesiali.
Una cosa è evidente per tutti: il concetto di sinodalità può scaturire all’interno di una categoria scritturistica e patristica che il Concilio Vaticano II ha certamente riportato in auge: il “popolo di Dio”. A sostegno di quest’ultima, già nell’immediato tempo postconciliare, è subentrata una particolare visione di “popolo” alquanto riduttiva, come se si alludesse unicamente ai laici, in contrapposizione alla gerarchia della Chiesa, arrivando anche a parlare dell’esistenza di una Chiesa “dal basso” in opposizione a una “dall’alto”. Interpretazione ideologica, totalmente assente nei documenti conciliari.
Joseph Ratzinger, in una conferenza tenuta a Monaco nel 1970, in occasione del 75.mo di attività dell’Unione bavarese cattolica per la protezione delle giovani, ha affermato: «Davanti a un movimento laicale così significativo e sempre esemplare come questo, mi sembra indispensabile dichiarare che la forma in cui oggi viene portata avanti nella Chiesa la cosiddetta riscoperta del laico, va proprio in direzione sbagliata. Per teologia del laicato s’intende oggi sempre più la battaglia per una nuova forma del ministero ecclesiale, cosa che è una vera contraddizione in termini». E ancora: «Una teologia del laicato, che viene portata avanti come battaglia per una quota proporzionale nel governo della Chiesa, è una caricatura di se stessa e rimane tale anche se questo fraintendimento viene ammantato con il concetto di una direzione sinodale della Chiesa» (J. Ratzinger, Le basi antropologiche dell’amore fraterno, in Opera omnia. Chiesa: segno tra i popoli, VIII/1, LEV 2021, p. 100).
Queste parole, pronunciate più di cinquant’anni orsono, sono di grande attualità. Il grande rischio in cui anche la riflessione ecclesiologica odierna può imbattersi, non è neanche soltanto quello di politicizzare il ruolo dei laici o del clero, ma soprattutto di presentare un’immagine di Chiesa totalmente aggrovigliata su di sé, sulle proprie forme strutturali, con l’altissima possibilità di mettere in secondo piano, sia la Verità che è Cristo, sia i bisogni dell’umanità; dal mondo giovanile a quello impegnato nel lavoro fino ai pensionati, dai poveri ai disoccupati, dai credenti a coloro che sono in ricerca: nessuno è minimamente interessato alle questioni strutturali della Chiesa, se non coloro che le comprendono come luoghi di potere. Nel medesimo discorso già citato, il teologo Ratzinger ha ancora affermato: «Quando la teologia diventa teoria della politica ecclesiale e lotta per partecipare al governo della Chiesa, la forza d’urto va solo verso l’interno di essa. La Chiesa si occupa soltanto di se stessa e così logora se stessa. La forza che le è stata concessa proprio per servire, per essere presenza per altri, viene impiegata nella lotta per dominare e per mantenere in movimento se stessa. Ma una Chiesa che correttamente comprende e vive se stessa non guarda se stessa, ma si allontana da sé e opera per gli altri» (ibid.).
Stiamo veramente correndo il rischio, in nome di un’ipotetica applicazione dello spirito conciliare, di tornare a quell’ecclesiocentrismo che il Vaticano II ha cercato in tutti i modi di smantellare, riaffermando la centralità di Cristo e l’importanza di avere uno sguardo vero e sensibile sull’umanità. È necessario forse recuperare quanto Papa Francesco ha affermato in Evangelii Gaudium, quando ha ribadito, contro ogni possibile forma di autoreferenzialità e a partire dalla Redemptoris missio di Giovanni Paolo II, la centralità della missione come “paradigma” di ogni azione ecclesiale: «L’attività missionaria “rappresenta, ancor oggi, la massima sfida per la Chiesa” e “la causa missionaria deve essere la prima”. Che cosa succederebbe se prendessimo realmente sul serio queste parole? Semplicemente riconosceremmo che l’azione missionaria è il paradigma di ogni opera della Chiesa» (n. 15). Queste parole dovrebbero scalfire ogni aspetto o attività della Chiesa, anche quel “processo sinodale” in atto nella Chiesa universale. Nel messaggio alle Pontificie Opere Missionarie (21 maggio 2020), Papa Francesco ha dichiarato che i veri testimoni «sono coloro che attestano ciò che viene compiuto da qualcun Altro»; il riconoscere l’iniziativa di un Altro sottrae al rischio di ripiegarsi su di sé. Ancora il Papa: «La gratitudine davanti ai prodigi che opera il Signore […] può rendere più facile anche per voi sottrarsi alle insidie dei ripiegamenti autoreferenziali e uscire da sé stessi, seguendo Gesù. L’idea di una missionarietà autoreferenziale, che passa il tempo a contemplare e auto-incensarsi per le proprie iniziative, sarebbe in sé stessa un assurdo. Non consumate troppo tempo e risorse a “guardarvi addosso”, a elaborare piani auto-centrati sui meccanismi interni, su funzionalità e competenze del proprio apparato».
La possibilità di cadere nell’autoreferenzialità proprio in questa transizione sinodale è in agguato per tutti. «Guardate fuori – ha ribadito il Papa nello stesso messaggio –, non guardatevi allo specchio. Rompete tutti gli specchi di casa».
E questo vale per ogni cristiano e per l’intera comunità ecclesiale.