di Francesco Vermigli · Questo articolo non sembri quello che in gergo si dice un “coccodrillo”. Non era pronto alla notizia della morte di Benedetto XVI; notizia che ci ha raggiunto a metà del mattino dell’ultimo giorno del 2022. Vogliamo qui raccogliere alcune cose più significative e dire dunque qualcosa – ad un tempo di ammirazione e di valutazione critica (nel senso più profondo del termine) – sulla figura e sul pensiero di uno dei principali protagonisti della Chiesa, a cavaliere tra il XX e il XXI secolo.
Nel titolo, le parole nova et vetera vogliono essere la chiave di lettura per una figura che si presenta assai più complessa delle rappresentazioni mediatiche che lo hanno accompagnato negli anni del suo servizio presso la Congregazione per la Dottrina della Fede, prima; durante il suo pontificato, poi. Di lui si potranno dire molte cose. Noi vorremmo concentrarci principalmente sulla figura della sua teologia (la Gestalt della sua teologia, avrebbe detto l’amico von Balthasar) e quelle parole che alludono a Mt 13,52 («Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche») paiono essere una buona chiave di lettura per tentare di esprimere qualcosa.
Teologia dalla Bibbia e con i Padri. Un tratto riconoscibilissimo della teologia di Ratzinger è il fatto che essa nasca da un radicamento biblico e patristico, non scontato per la teologia cattolica post-bellica. Una teologia che si confronta con i Padri e che trova la sua sorgente nella Bibbia è una teologia che non si potrà mai definire ordinaria: perché i Padri sono l’esperienza sempre attuale di una fede che si confronta con il pensiero greco, senza mai assumere un sistema filosofico come normativo per la riflessione credente; e perché la Bibbia è fonte che mai si esaurisce e che richiama la teologia ad una vitalità continua, ad un rinnovamento costante. La formazione biblico-patristica della sua teologia esiterà in seguito nella ricerca sulla teologia della storia e sull’idea di Rivelazione in Bonaventura: una ricerca innovativa e che ben presto servirà al primo impegno teologico-ecclesiale di Ratzinger, quello di perito conciliare. Qui è nota la simbiosi con Karl Rahner per la stesura di uno schema alternativo sulla Rivelazione, rispetto a quello preparato dalla Commissione conciliare: uno schema rivoluzionario, che scardina la dottrina delle due fonti della Rivelazione che si fa risalire a Trento (ma erroneamente, come avrebbe dimostrato lo stesso Ratzinger in Offenbarung und Überlieferung, 1965) e che passerà poi nella Dei Verbum.
Una teologia dal sapore platonico. Vi è poi un altro aspetto, che non pare opportuno lasciar passare. Forse attraverso la mediazione di Agostino, suo nume tutelare (chi non ricorda la conchiglia nel suo stemma papale, che richiama il grande di Ippona?) o forse per la ricerca su Bonaventura e la scuola francescana, non v’è dubbio che un altro aspetto della sua teologia è l’ispirazione al pensiero che si direbbe genericamente platonico. In modo particolare, questo accade nella presentazione della corrispondenza tra il Logos, che è la seconda persona della Trinità, l’ordine del cosmo e i logoi, cioè la ragione che abita nei singoli uomini. Forse questa matrice genericamente platonica si deve intendere anche come lo spunto per il recupero della celebre frase di Manuele II Paleologo a Ratisbona nel settembre 2006: «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio». La ragione trova nel Ratzinger che cita l’imperatore bizantino, il carattere di categoria generalissima che raccoglie Dio, il cosmo e l’uomo.
Una teologia del primato di Dio. La teologia di Ratzinger si configura infine come teologia del primato di Dio. Sembrerà scontato, anche solo se pensiamo all’etimologia della parola “teologia”; ma la sua riflessione non appare mai come una “teologia seconda”: essa, cioè, non si disperde nei mille rivoli e nelle mille questioni che affaticano spesso il mestierante della ricerca su Dio. La sua teologia è costantemente alla ricerca del proprio fondamento. Non è un caso che una parte cospicua della sua riflessione abbia interessato l’ambito di quelli che un tempo si dicevano i “novissimi”: una teologia del primato di Dio volge infatti con naturalezza lo sguardo all’escatologia, cioè al momento della ricapitolazione, della pienezza, della definitività della vita con Dio. Una teologia siffatta ha potuto dare esito al celebre ribaltamento della frase di Grozio: vivere veluti Deus daretur; cioè vivere non escludendo l’“opzione Dio”, perché l’uomo che la esclude condanna la propria riflessione nei limiti angusti di una ragione positivistica e autoreferenziale.
La riflessione teologica di Ratzinger non è mai banale, perché ad un tempo innovativa e tradizionale: nova et vetera, appunto; radicata nel passato e allo stesso tempo rivolta al presente e al futuro, mai timorosa del confronto con il pensiero moderno. Questo carattere ancipite della sua teologia, a ben vedere, si riverserà nella sua vita ecclesiale e anche nei suoi anni di pontificato. Un misto di conservazione e di rivoluzione che sorprende e in qualche modo disorienta: come ha disorientato e ancora per molti disorienta l’atto con il quale egli ha rinunciato al ministero petrino.
Ma come sanno quelli che si dilettano di latino, rivoluzione è termine che indica in primo luogo non sommovimento, non sconvolgimento, non mutamento radicale; indica innanzitutto il ritorno all’origine, al punto di partenza (re-volutio, come ci attesta ad esempio l’astronomia). L’atto rivoluzionario con cui Benedetto XVI ha rinunciato al suo ministero è per questo atto teologico per eccellenza: a Dio viene restituito quello che Dio aveva donato. Per questo ci pare che l’atto della rinuncia sia stato un atto coerente con il pensiero di Ratzinger: un atto coerente con il pensiero che sancisce il primato di Dio sulla storia e sul mondo. Un atto inoltre coerente con una percezione della Chiesa non autoreferenziale: una Chiesa che è per sua natura estroversa (e lo è verso Dio); una Chiesa che ha fuori di sé il proprio baricentro e per questo può apparire continuamente instabile, alla ricerca di un equilibrio che sarà raggiunto solo nell’eschaton. Continua instabilità ed estroversione verso Dio: proprio come l’atto teologico per eccellenza del suo pontificato, l’atto rivoluzionario della rinuncia, l’atto che la storia gli riconoscerà, ha dimostrato.