di Francesco Vermigli · Reca la data dell’11 ottobre 1992, la Costituzione apostolica Fidei depositum di Giovanni Paolo II, con la quale veniva pubblicata una prima edizione in lingua francese del Catechismo della Chiesa Cattolica. Una seconda edizione, quella typica latina, venne promulgata con la Lettera apostolica Laetamur magnopere del 15 agosto del 1997, sempre da Giovanni Paolo II: una seconda edizione, questa definitiva, che si ritenne necessaria a seguito delle numerose richieste di miglioramenti al testo del 1992.
Al netto delle considerazioni circa questo percorso piuttosto articolato che condurrà ad una duplice redazione del Catechismo a distanza di cinque anni, possiamo senz’altro affermare che quelle richieste di miglioramento non vennero a toccare l’impianto generale dell’edizione del 1992.
Per gli obbiettivi del presente articolo, è sufficiente constatare questo, perché quell’impianto che resta immutato tra il 1992 e il 1997, rivela una non facile conciliazione di elementi nuovi ed elementi tradizionali. A questa compresenza di nova et vetera (cf. Mt 13,52) volgiamo innanzitutto la nostra attenzione. Proveremo in seguito a trarre indicazioni circa la legittimità e l’utilità dell’esistenza ancora oggi di un Catechismo; nel contesto, cioè, di una tendenza assai diffusa a proscrivere ogni dato dottrinale dallo spirito moderno e dalla vita della stessa Chiesa cattolica.
Com’è evidente, la data dell’11 ottobre con la quale venne promulgata la Fidei depositum non è casuale: si trattava del trentesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. La Costituzione apostolica dichiara esplicitamente che il Catechismo che giungeva a pubblicazione, dovesse essere inteso come l’espressione dottrinale del Vaticano II; al modo, ad esempio, del Codice di Diritto Canonico per la del 1983 e il Codice dei Canoni delle Chiese orientali del 1990 – per quanto attiene all’ambito giuridico – e ancora prima del Messale di Paolo VI del 1970, per quanto riguarda gli aspetti liturgici. La pubblicazione corrispondeva anche ad un’esplicita richiesta che era giunta dal Sinodo straordinario dei Vescovi, convocati nel 1985 nel venticinquesimo anniversario della conclusione del Vaticano II.
D’altra parte questa istanza di rinnovamento – e di un rinnovamento ispirato al momento conciliare – si fa presente assieme ad un appello molto tradizionale ad una chiarificazione della fede, quasi icasticamente rappresentato dalle parole iniziali con le quali si apre la Costituzione apostolica: depositum fidei. Che la Rivelazione sia un “deposito della fede” – come un deposito, un tesoro, cioè, di proposizioni già date da sempre (dal momento della Rivelazione di Cristo, ovviamente) da cui la Chiesa nel corso della storia trae qualcosa – è immagine assai tradizionale, tanto da apparire non immediatamente sintonica con l’idea di Rivelazione che si prende dal Vaticano II; espressa segnatamente dalla Dei Verbum. Ma su questo torneremo poco sotto.
In effetti, non possiamo non notare la presenza di una preoccupazione antica. Come riconosce nella Costituzione il medesimo Giovanni Paolo II, lo sviluppo del testo segue l’impianto in quattro parti del Catechismo tridentino di Pio V, che potrebbe essere restituito con queste domande: 1) cosa la Chiesa crede? 2) cosa (e come) la Chiesa celebra? 3) come la Chiesa vive? 4) cosa (e come) la Chiesa prega?
D’altra parte è proprio l’incipit del Catechismo che mostra come, pur all’interno di un impianto tradizionale, la chiave di lettura sia ispirata alla dottrina della Rivelazione del Vaticano II. Uno spunto antropologico sull’uomo capax Dei (I parte, I sezione, I capitolo), che risuona delle grandi discussioni pre-conciliari circa il desiderium naturale videndi Deum (de Lubac in prima battuta e Daniélou e Rahner in subordine). Quindi uno sguardo più disteso sulla Rivelazione da considerarsi come atto di Dio che viene incontro all’uomo (I parte, I sezione, II capitolo), che invece si ispira ai primi numeri della Dei Verbum e all’impronta lasciata sulla storia del Concilio su questo punto dallo schema di Rahner e Ratzinger. Infine, il capitolo dedicato alla risposta che l’uomo dà al Dio che si rivela (I parte, I sezione, III capitolo), dove la fede non è più pensata solo come un atto intellettivo di assenso a Dio che si rivela, ma come un atto umano integrale, che coinvolge ogni facoltà umana e tutto il vissuto della singola persona.
Pare che questi ultimi aspetti permettano di guardare con minor polemica all’esistenza di un Catechismo: cioè, di guardare con maggiore benevolenza all’esistenza di un sistema dottrinale che aiuti a vivere la fede personale e l’appartenenza alla Chiesa. In effetti, non esiste nella Chiesa una dottrina astratta, ma ogni precisazione su un qualsiasi punto ha il suo radicamento più profondo nell’evento della Rivelazione. Essa è dogmatica di per sé, perché comunica qualcosa su Dio, sull’uomo, sul mondo e sulla storia e nega che si possa dire qualcosa di contrario a ciò che è stato rivelato. Ma ogni comunicazione di Dio, ogni Rivelazione nasce dalla volontà salvifica di Dio, ha all’origine la sua Misericordia.
Sono, questi, aspetti piuttosto consonanti con un’antropologia moderna, che – forse non a torto – diffida di ogni forma di conoscenza astratta e distante dal vissuto dell’uomo.