Il dolore di Dio. A 50 anni da «Il Dio crocifisso» di Moltmann

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di Francesco Vermigli · Sono passati esattamente cinquant’anni dalla pubblicazione in tedesco de’ Il Dio crocifisso del teologo riformato Jürgen Moltmann. Die gekreuzigte Gott. Das Kreuz Christi als Grund und Kritik christlicher Theologie fu infatti pubblicato nel 1972 e la bella e intensa prefazione reca la data simbolica del Venerdì Santo di quell’anno. È invece da ricondurre all’anno successivo la traduzione italiana a cura di Dino Pezzetta, entro la collana «Biblioteca di teologia contemporanea» della casa editrice Queriniana; collana fondata e diretta con mano sapiente da Rosino Gibellini. Sembra giusto non far passare questa ricorrenza, dal momento che nel caso di questo scritto di Moltmann si tratta di un’opera che ha segnato come poche altre la teologia postconciliare. Ci muoveremo secondo queste modalità: prima offriremo una presentazione corsiva dell’opera, quindi verificheremo cosa della teologia siglata in questo volume sia opportuno mantenere ancora oggi.

Mi pare che la “teologia della croce” espressa ne’ Il Dio crocifisso sia caratterizzata da due punti fondamentali.

1) Innanzitutto, il fatto che con quest’opera si guarda al mistero della Croce non tanto – o, almeno, non in prima battuta – dalla parte dell’uomo, ma piuttosto dal punto di vista di Dio. Si trattava cioè di verificare come la morte di Cristo tocchi Dio. In qualche modo, si potrebbe dire che il libro risponde alla domanda: cosa accade in Dio se una persona della Trinità muore in croce?

La questione, a pensarci bene, è capitale. Riguarda l’attributo dell’immutabilità e quello connesso dell’impassibilità abitualmente riconosciute dalla tradizione a Dio. Può Dio subire una variazione? Può subire un cambiamento? Può conoscere il divenire? Può subire dall’esterno qualcosa? Il Dio della metafisica classica è ἀμετάστατος, letteralmente Colui che non può cambiare stato; è ἀπαθής, cioè il Dio che è impermeabile, che non soffre: a-patico, appunto. Se però dico che Dio muore in croce in Cristo, affermo che Dio non è immutabile e non è impassibile; o almeno non lo è secondo il modo in cui lo intende la metafisica classica.

La strada percorsa da Moltmann è quella che intende recuperare l’immagine di Dio che ci consegna la Sacra Scrittura, in particolare la Rivelazione neo-testamentaria. Il Dio cristiano è il Dio che si mostra pienamente nella croce: un Dio che sente la sofferenza e subendo la sofferenza, com-patisce con l’uomo. Perché la sofferenza in Cristo non tocca solo la sua umanità; come si è sempre preoccupata di affermare la tradizione, per preservare Dio da ciò che è finito e da ciò che muta. Piuttosto il dolore entra in Dio, Dio lo accoglie, Dio lo vive. In qualche modo, Moltmann si aggancia al senso autentico della dottrina della communicatio idiomatum, che non si colloca solo ad un livello verbale, ma che realmente rende ragione della reciproca immanenza delle proprietà delle due nature.

2) Vi è poi un altro elemento decisivo, che connota l’opera di Moltmann e fa ritornare la sua teologia al versante antropologico del mistero della Croce: il fatto, cioè, che questa teologia della croce e del crocifisso è una teologia che va integrata entro la “teologia della speranza”, punto teologico cardinale del pensiero di Moltmann. Si potrebbe dire che la “teologia della croce” è quella teologia che rende ragione del fatto che esista una “teologia della speranza”. Così lo stesso Moltmann nelle sue pagine introduttive, rievocando con una nota biografica il legame tra i due versanti della sua teologia: «era il momento in cui nelle aule universitarie facevano il loro ingresso, scossi e depressi, coloro che della mia generazione erano riusciti a sopravvivere nei campi di concentramento e negli ospedali militari. Una teologia che non fosse stata evoluta alla luce del Crocifisso, dell’abbandonato da Dio, a quel tempo non ci avrebbe toccati» (p. 7 dell’edizione italiana). Vale a dire che solo una teologia che sia all’altezza del Crocifisso – che sappia cioè sostenere in sé lo scandalo della Croce – può elevarsi al livello della speranza; diventare strumento e mezzo di speranza nel mondo.

Giungiamo ora a percorrere alcune tracce che scaturiscono dall’opera di Moltmann. Il teologo riformato, in connessione con la cosiddetta “teologia della morte di Dio” offre lo spunto per una seria messa in discussione di alcuni punti della tradizione teologica: quella tradizione teologica che pareva esser maggiormente preoccupata di non rinnegare la prospettiva della metafisica classica su Dio, piuttosto che accogliere quella evangelica. In effetti, è il Vangelo che dovrebbe guidare una seria teologia. Dovrebbe essere la Rivelazione la misura della metafisica – quando essa si volge a Dio – non il contrario. D’altra parte c’è un punto che non deve esser dimenticato. Come insegna l’antichissimo “argomento soteriologico” (la cui prima attestazione può essere rintracciata nel Simbolo niceno), è necessario che quel Dio che muore in croce, resti Dio, per poter salvare.

Sulla scorta di Moltmann, pare dunque necessario per la teologia tenere assieme la verità di una sofferenza che viene accolta da Dio nella Croce di Cristo, e la permanenza della sua identità divina. Perché se non è Dio (in questo caso: se non rimane Dio…), non salva; avrebbero detto i Padri.

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Francesco Vermigli

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