di Antonio Lovascio · “Niente più inganni. In Italia 6 milioni di persone non ce la fanno, bisogna combattere le diseguaglianze. Non sprechiamo i soldi del Pnrr, è il tempo di dire basta alle decisioni opportunistiche dei leader”. Certo il richiamo del presidente della Cei card. Matteo Zuppi al senso di responsabilità dei partiti è stato forte e chiaro, di fronte ad una crisi politica grave e incomprensibile che porta gli italiani alle urne il 25 settembre. Come se non bastasse, anche Papa Francesco di ritorno dal Canada, conversando in aereo con i giornalisti ha elogiato Draghi (“un uomo di qualità internazionale”) con un caldo invito alla politica “ad essere responsabile”: ”Non è possibile avere venti governi in ventidue anni”.
Davanti al dilagare della povertà e delle disparità, ancora una volta la risposta delle forze politiche è stata a dir poco deludente, avendo alcuni protagonisti di questa triste stagione mostrato solo interessi di fazione e di schieramento, come ha giustamente sottolineato in un editoriale il direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio. Di certo non hanno esercitato questo buon senso popolare quelle forze – M5s, Lega e Fi – che hanno prima impastoiato e poi affossato il governo Draghi e l’«agenda Mattarella», che liberamente un anno e mezzo fa avevano, invece, accettato di sostenere e attuare, rispondendo al pressante appello del presidente della Repubblica per arginare la triplice sfida della pandemia, della ricostruzione economico-sociale e infrastrutturale del Paese e della sua transizione ecologica. Alla quale si sono poi aggiunti a febbraio gli effetti della guerra dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.
In attesa che gli elettori diano un sussulto e con un voto saggio contribuiscano a dipanare l’ingarbugliata matassa ed a ricomporre con lungimiranza un nuovo quadro parlamentare, non possiamo non riflettere sulla crisi più generale che, con un’inflazione che galoppa all’8 per cento, sta già incidendo in modo pesante sulla vita delle persone e delle famiglie. Purtroppo la sensibilità verso il tema è scarsa. Oggi siamo tutti preoccupati – e giustamente – per l’emergenza climatica che ci tocca tutti direttamente e abbiamo messo in secondo piano la lotta alla povertà ( quella assoluta, triplicata dal 2005, ha raggiunto 5 milioni e 600 mila persone) che si pensa non riguardi direttamente chi vive in condizioni agiate. In realtà non è così. Come ricorda spesso il Papa tutto è connesso. La presenza di condizioni di povertà e forte diseguaglianza è una bomba sociale le cui conseguenze ricadono su tutti sotto forma di migrazioni incontrollate e situazioni che alimentano terrorismo e conflitti sociali. Conflitti che poi scoppiano su fronti spesso inattesi come ad esempio oggi quelli dei no green pass. Chi si sente troppo indietro ai ceti più abbienti diventa molto spesso un ‘no qualcosa’”. In Italia – lp rimarca l’ultimo rapporto INPS – il fenomeno della povertà lavorativa è più marcato che negli altri Stati europei. Secondo Eurostat, nel 2019, l’11,8% dei lavoratori italiani era povero (ben sotto i 12 mila euro annui), contro una media europea del 9,2%. La percentuale di lavoratori sotto la soglia di 9 euro lordi l’ora è 28% (ovvero oltre 4,3 milioni) e quasi un occupato su tre guadagna meno di mille euro al mese, considerando anche i part-time. Servono quindi correttivi che portino ad una ricomposizione della prestazione, definendo delle griglie di regimi d’orario che aiutino le persone a conseguire un reddito dignitoso. La percentuale di part-time è al 46% tra le donne, il dato più alto nella Ue, contro il 18% tra gli uomini, e una parte prevalente di questo part-time è considerato involontario. Il lavoro a termine è cresciuto negli ultimi due anni ed oggi ha raggiunto il picco storico di oltre 4,2 milioni di lavoratori ovvero il 22,2%, al netto di agricoli e domestici. Cresce il problema dei contratti a termine di durata giornaliera o settimanale. Sono “lavorativamente poveri” il 64,5% degli addetti negli alberghi e ristoranti, a fronte di meno del 5% nel settore finanziario.
Eccoli allora questi “strappi”. “Il 10% dei dipendenti a tempo pieno guadagna meno di 1.495 euro, il 50% meno di 2.058 euro e solo il 10% ha livelli retributivi superiori a 3.399 euro lord. La retribuzione media delle donne nel 2021 risulta pari a 20.415 euro, sostanzialmente invariata rispetto agli anni precedenti e inferiore del 25% rispetto alla corrispondente media maschile”. Il 23% dei lavoratori guadagna meno di 780 euro al mese, la soglia del Reddito di cittadinanza, considerando anche i part-time.
Sempre secondo il Rapporto INPS nel 2021 si registrano più persone sul mercato del lavoro rispetto al 2020 (25,7 milioni). Ma molti dei nuovi lavoratori immessi sono impiegati per un numero ridotto di ore e percepiscono retribuzioni che non permettono ai singoli di vivere dignitosamente. Negli ultimi 15 anni la metà più povera degli occupati ha perso quote di reddito tra il 2005 e 2020, mentre l’85% sperimentava una crescita reddituale. Oggi abbiamo 1.011 forme contrattuali: troppe e spesso non rappresentative.
Lavoro povero significa anche pensioni povere. Il 32% dei 16 milioni di assegni previdenziali è sotto i mille euro lordi al mese. Le rivalutazioni sono rare e minime; ed in questa campagna elettorale stiamo assistendo ad un valzer di promesse che non verranno (o non potranno essere) mantenute. E qui torna opportuno richiamare le parole del card. Zuppi. Dal momento che si presenta, inevitabile, l’ora dei doveri e delle responsabilità per cui la politica dovrà trovare il più virtuoso punto d’incontro tra ciò che è buono e ciò che è realmente possibile perché le risorse esistenti non vadano sprecate ma collocate al servizio del bene comune e dell’intera popolazione. ” È un tempo nel quale dobbiamo ricostruire il senso di comunità, in cui, come ha ricordato il presidente Mattarella, occorre un contributo costruttivo da parte di tutti, specialmente di chi sceglie di impegnarsi nella vita politica”.