di Leonardo Salutati · Alla luce dell’ennesima tragedia verificatasi a Uvalde in Texas il 24 maggio scorso (dall’inizio di quest’anno sono state contate oltre 200 sparatorie di massa negli USA), dove un giovane diciottenne armato di un fucile semiautomatico ha ucciso 19 bambini e 2 maestre, da più parti ci si interroga sulla liceità di possedere privatamente armi da fuoco.
La questione è particolarmente rilevante per gli USA dove alla data del 2018 vi erano circa 400 milioni di armi da fuoco in mano a civili – un record mondiale anche in termini pro capite: 120 per ogni 100 abitanti (nel 2011 erano 88 ogni 100) – e dove il 2° Emendamento alla Costituzione garantisce il diritto a possedere armi da fuoco.
Sull’argomento della detenzione privata di armi non si è sviluppata nel campo della Teologia Morale una riflessione sistematica e approfondita come nel caso delle armi da guerra. È tuttavia possibile ricavare alcuni principi estendendo all’ambito personale quanto affermato per altri ambiti.
Un documento del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace del 1994, Il commercio internazionale delle armi. Una riflessione etica, ci offre alcuni importanti punti di riferimento. Prima di tutto ricorda che «In un mondo segnato dal male e dal peccato, esiste il diritto alla legittima difesa mediante le armi. Questo diritto può diventare un grave dovere per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della famiglia o della comunità civile. Soltanto questo diritto può giustificare il possesso o il trasferimento delle armi. Non è tuttavia un diritto assoluto; esso è accompagnato dal dovere di fare il possibile per ridurre al minimo, fino ad eliminarle, le cause della violenza». L’ultima affermazione conduce a considerare il possesso privato di armi come una condizione che si oppone ad eliminare le cause della violenza, stante il fatto che «il bene comune della famiglia» è garantito dallo Stato di diritto.
Di seguito si precisa che: «Le armi non sono come gli altri beni (…) che possono essere scambiati sul mercato mondiale o interno. Certo, il possesso di armi può avere un effetto dissuasivo, ma (…) esiste un rapporto stretto e indissociabile tra le armi e la violenza. È in ragione di questo rapporto che le armi non possono in nessun caso essere trattate come semplici beni commerciabili». Detto altrimenti anche il commercio delle auto può porre questioni etiche ed è certamente possibile uccidersi con l’auto, ma il legame tra l’auto e la morte non è intrinseco come quello che esiste tra le armi e la morte, per cui un’etica basata sul rispetto della vita umana deve necessariamente valutare con estremo rigore il possesso personale di armi.
Si osserva inoltre che le dimensioni della provvista di armi da parte di uno Stato per garantirsi la possibilità di una eventuale legittima difesa non devono oltrepassare i limiti determinati dal “principio di sufficienza” combinato con il “principio di responsabilità” in base ai quali «ogni Stato può possedere unicamente le armi necessarie per assicurare la propria legittima difesa» in modo da non favorire «l’accumulazione eccessiva di armi o il loro trasferimento indiscriminato». Per cui l’esercizio del commercio di armi non può aggirare tali principi invocando la legge del mercato della domanda e dell’offerta.
Estendendo i due principi all’ambito personale e alla luce dell’illiceità per le persona privata, anche nel caso di legittima difesa, «di mirare direttamente a uccidere per difendere se stesso» in quanto «l’uccisione del malfattore spetta soltanto a colui al quale è affidata la cura del bene comune (…), alla pubblica autorità (…) a chi ha un incarico pubblico che a ciò lo autorizzi per il pubblico bene: com’è evidente per il soldato che combatte contro i nemici e per le guardie che affrontano i malviventi, i quali però peccano, se sono mossi da risentimenti personali» (S. Tommaso d’Aquino, STh IIª-IIae q. 64 a. 3; q. 64 a. 7), ne consegue che non è lecito possedere armi privatamente, fatti salvi i casi che non sono esclusi da tali considerazioni etiche.
Ai principi richiamati si può aggiungere quanto ripetutamente affermato a partire dal 1975 dalla Conferenza Episcopale USA, ovvero che: «le pistole dovrebbero essere accessibili alle forze dell’ordine e ai militari e che i civili dovrebbero avere un accesso significativamente limitato se non addirittura zero accesso alle pistole per favorire una società migliore» (Responses to the Plague of Gun Violence, 2019). Zero accesso alle pistole preclude senza alcun dubbio il possesso di altre armi più letali quali un fucile semiautomatico.
A queste considerazioni di carattere morale si aggiunga che la rigidità della politica statunitense nel difendere il 2° Emendamento in quanto espressione di un diritto fondamentale di libertà, ad una attenta analisi non sembrerebbe avere solide basi giuridiche.
Infatti la “Carta dei diritti” (i primi 10 emendamenti della Costituzione degli USA, che proteggono i diritti fondamentali di libertà) fa parte di un documento progettato per cambiare secondo una procedura adeguatamente complessa, ma non impossibile, tanto che il popolo americano ha scelto di modificare la Costituzione 27 volte da quando essa fu adottata nel 1787. Statisti come Theodore Roosevelt (presidente degli USA dal 1901 al 1909) e Woodrow Wilson (1913-1921), misero più volte in questione la Costituzione ottenendo l’approvazione di nuovi emendamenti riguardanti: l’introduzione di una imposta federale sul reddito, l’elezione diretta dei senatori, il suffragio alle donne e il divieto delle bevande alcoliche (è il 18° Emendamento in vigore dal 1920 che aprì l’epoca del proibizionismo, abrogato dal 21° Emendamento nel 1933), espressione della visione dei padri costituenti che hanno pensato il documento con un’anima dinamica, da custodire con spirito critico per stare al passo con i tempi.
L’arroccamento di gran parte della società statunitense sulla difesa del 2° Emendamento sembra invece espressione di una società che preferisce stare “nelle tenebre e nell’ombra di morte” e rifiuta la visita “del sole che sorge dall’alto” (Lc 1,78-79).