di Francesco Vermigli · In occasione del Simposio «Per una teologia fondamentale del sacerdozio» organizzato dalla Congregazione per i vescovi, papa Francesco ha tenuto nell’aula Paolo VI il 17 febbraio scorso un lungo discorso sull’identità più profonda del ministero presbiterale nel contesto odierno. In questa sede ci limitiamo a considerarne gli snodi principali.
Il papa si volge a dare indicazioni precise sull’identità e il ministero del prete. Afferma infatti Francesco che «il sacerdote, più che di ricette o di teorie, ha bisogno di strumenti concreti con cui affrontare il suo ministero, la sua missione e la sua quotidianità». Precisamente, questo avviene mediante la presentazione di quattro punti – definiti dal papa colonne o pilastri, donde la presenza di questo termine del titolo – che identificano ai suoi occhi il modo concreto mediante il quale il prete compie la sua missione ed è fedele alla sua più profonda identità. Si tratta di quattro diverse vicinanze.
Vicinanza a Dio. È la più radicale, la più profonda: e non casualmente nel discorso del papa rivendica il maggior spazio. Il quadro di riferimento è quello dell’interiorità, della spiritualità del sacerdote, che è più, molto di più, di quella che potremmo chiamare con il papa una pratica religiosa; idea che reca invece con sé il dovere di adempiere ad un compito. Si pone poi il parallelo con Gesù: in particolare l’invito a non temere le ore più dure del ministero e della propria vocazione, guardando al Getsemani e alla croce. Si sottolinea il pericolo della fuga nell’attivismo, nel fare disordinato, nel dovere da svolgere, senza cuore, senza passione, senza zelo. Al contrario, questo contatto frequente perché quotidiano, questo contatto desiderato riconduce il prete alla verità della propria identità e della propria missione. È una relazione che apre alla verità su se stessi, anche alle proprie fragilità – affrontate senza timori – ma che sa aprirsi in maniera fiduciosa alla misericordia di Dio. Il contatto frequente con Dio apre il cuore, lo dilata; e dilatato, quel cuore sa accogliere il dolore e i desideri del popolo. La preghiera e la relazione coltivata con perseveranza con il Signore rende il prete consapevole dell’amore del Signore nei suoi confronti. Lo rende così tanto consapevole di essere grande agli occhi di Dio, da non temere di esser piccolo agli occhi del mondo.
Vicinanza al vescovo. L’ambito in cui principalmente si muove il ragionamento del papa, è l’ambito dell’obbedienza che si deve ad un padre, non tanto ad un superiore. In questo, l’esortazione che il papa fa è anche nei confronti dei vescovi, sollecitati a mostrarsi padri nei confronti dei loro presbiteri. Obbedire infatti non è eseguire ordini, innanzitutto; almeno per quanto attiene la compagine ecclesiale: nella Chiesa obbedire rientra nell’ambito di una relazione personale, fatta di fiducia e di sincerità, di ascolto e di accoglienza reciproca.
Vicinanza tra presbiteri. Assomiglia a ciò che il papa ha mostrato a riguardo della vicinanza al vescovo. Certo là la parola determinante era “obbedienza”, qui è “fraternità”: ma è medesimo l’invito a far diventare anche questa parola un atteggiamento interiore. La fraternità, infatti «non può essere un’imposizione morale esterna a noi. Fraternità è scegliere deliberatamente di cercare di essere santi con gli altri e non in solitudine, santi con gli altri». Essere fratelli, tra preti, dunque è una scelta, che certo nasce dalla comune ordinazione presbiterale, come sua radice profonda; ma è una comunanza che il prete è chiamato ad interiorizzare, a renderla il modo di stare con naturalezza tra i confratelli. Il discorso del papa si articola intorno al cosiddetto inno alla carità della I Lettera ai Corinzi, nel cap. 13. Francesco prende spunto da questo testo, per pensare il modo autentico dell’amicizia tra preti: senza invidia, benigna, che non si gonfia, giusta e vera, che non cerca il proprio interesse… E chiude dicendo: «Mi spingo a dire che lì dove funziona la fraternità sacerdotale, la vicinanza fra i preti, ci sono legami di vera amicizia, lì è anche possibile vivere con più serenità anche la scelta celibataria».
Vicinanza al popolo. È l’ultima vicinanza. Una vicinanza che sa prendere dalle altre tre; che anzi richiede le altre tre, per essere forte e autentica. La vicinanza del pastore nei confronti del suo popolo è – che il prete ne sia o meno consapevole – la presenza dello stile di Gesù: uno stile fatto di prossimità e tenerezza. Il clericalismo, dice il papa, al contrario si nutre di lontananza; anzi di molteplici lontananze. Al contrario, «la preghiera del pastore si nutre e si incarna nel cuore del Popolo di Dio. Quando prega, il pastore porta i segni delle ferite e delle gioie della sua gente, che presenta in silenzio al Signore affinché le unga con il dono dello Spirito Santo. È la speranza del pastore che ha fiducia e lotta perché il Signore benedica il suo popolo».
Quattro pilastri sostengono la vita del prete, la sua identità, il suo ministero, quattro vicinanze: il prete è agli occhi di Francesco – oggi, più che mai – l’uomo delle relazioni, l’uomo in relazione.