di Stefano Tarocchi · Sulla strada per Gerusalemme, dopo il terzo annuncio della passione, due dei Dodici, Giacomo e Giovanni, chiedono a Gesù di avere «nella sua gloria» un posto alla destra e uno alla sinistra. Dopo aver replicato prospettando il suo stesso calice e il suo battesimo – ossia la croce –, Gesù pronuncia queste parole: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono» (Mc 10,42).
Ora, risulta strano che il solo Marco, definisce i detentori del potere come «coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni». Evidentemente qui è in discussione il senso stesso del potere, che il testo greco del Vangelo rende con l’idea di un dominio che si impone dall’alto, così da schiacciare e opprimere. Ma da dove l’evangelista trae questa immagine?
Sembra strano a diversi interpreti che nel testo di Marco (e anche di Matteo) solo i re e i governanti delle nazioni pagane, ma non esplicitamente quelli ebrei, siano identificati come oppressori, a dispetto del fatto che anche questi ultimi negli ultimi due secoli a.C. e nel primo secolo d.C. erano spesso sfruttatori e corrotti come le loro controparti pagane.
Per spiegare l’enigma si fa ricorso ad un testo in particolare della letteratura apocalittica giudaica, la grandiosa visione del capitolo 7 del libro di Daniele, poi ripresa nel libro dell’Apocalisse (Ap 13). In sostanza si legge: «quattro venti del cielo si abbattevano impetuosamente sul Mare Grande e quattro grandi bestie, differenti l’una dall’altra, salivano dal mare (Dan 7,2-3)». È ciò che prelude alla visione del «figlio d’uomo» (Dan 7,13).
Ora, a Daniele viene data l’interpretazione di quanto ha veduto: «le quattro grandi bestie rappresentano quattro re, che sorgeranno dalla terra» (Dan 7,17). Il che è come dire che i governanti terreni non regnano realmente, ma solo sembrano esserlo. Dietro di loro, infatti, o si trovano forze angeliche e demoniache. Ma è in definitiva Dio a domina sulle vicende umane.
Anche nell’apocrifo quarto libro dei Maccabei, che è da collocare a cavallo fra il l secolo e il II all’interno della Bibbia greca, troviamo un’immagine altrettanto significativa: «non temiamo colui che pensa di ucciderci» (4 Mac 13,14).
Quest’ultimo testo sembra riprendere il detto evangelico riportato dal Vangelo di Luca: «non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo e dopo questo non possono fare più nulla. Vi mostrerò invece di chi dovete aver paura: temete colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geènna» (Lc 12,4-5).
Ma se il rischio del dominio appartiene al potere civile, esso può attraversare anche i tratti dell’azione pastorale. E questo con modalità ancora più sottili. È così che la prima lettera di Pietro scrive: «Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri, come piace a Dio, non per vergognoso interesse, ma con animo generoso, non come padroni delle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge (1 Pt 5,1-3).
Anche Paolo aveva capito tutto questo quando scrive ai cristiani di Corinto: «noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete saldi» (2 Cor 1,24).
È il vocabolario stesso che viene impiegato, sia nel vangelo che negli altri scritti, a darcene conferma: quando l’autorità perde il suo ruolo originale e diventa oppressione e dominio senza scrupoli di alcun genere, allora questa è lontana totalmente dal Vangelo, che si muove su altre dimensioni: «tra voi non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,43-45).