Dove eravamo rimasti? Un discorso da cui ripartire.
di Marco Tarallo • Il 20 luglio l’ex presidente della regione Toscana Enrico Rossi ha pubblicato, sulla propria pagina Facebook, il video del discorso degli allievi della classe di lettere alla cerimonia dei diplomi alla Scuola Normale Superiore. Da allora il discorso, fortemente critico della direzione in cui l’università italiana e con lei la Normale stia andando, ha ricevuto un’attenzione clamorosa quanto inattesa dagli stessi umanisti neodiplomati. In effetti il discorso era stato pronunciato il 9 luglio, e fino all’iniziativa casuale di Rossi non erano registrabili reazioni all’esterno della Scuola pisana. Dal 20 luglio, invece, il discorso è stato visualizzato, letto, commentato, criticato, citato e i redattori intervistati per giornali, riviste, radio e anche il telegiornale. Open di Mentana, Internazionale, Il Mulino, Tg3, Il Post, Domani: è tutto lì, sul web, e continua a circolare.
I redattori allora hanno deciso che questo potesse essere l’inizio di uno sforzo più esteso, per riportare nel dibattito pubblico questioni tanto importanti quanto disattese, seppure, come loro stessi non si stancano di ricordare, le loro parole non siano state particolarmente originali, ma abbiano semplicemente ripreso, in una forma chiara e comprensibile, rilievi sollevati ripetutamente da più parti, da singoli studiosi, addetti del settore e associazioni.
In effetti non è difficile trovare, non appena si cerca, dati e studi di storici, sociologi, pedagoghi e altri profili, che dimostrino abbondantemente la coerenza in ormai lunghi anni, da parte della politica pubblica universitaria e scolastica, nel sottrarre risorse e instaurare meccanismi premiali e standardizzanti. Gli esiti sono evidenti sul piano della ricerca scientifica, della condizione sociale e professionale degli studiosi ma, soprattutto, della cultura diffusa nel paese il quale, fondandosi costituzionalmente sui principi repubblicani di compartecipazione e condivisione della sfera pubblica in tutti i suoi aspetti, non può che risentire di questo arretramento, nella qualità del confronto espresso e fondamentalmente nell’affezione ai valori della ragione.
Sono problemi sollevati in questa rubrica già a giugno 2020, nel numero dal titolo Note urgenti di università, di fede e di cittadinanza (da decenni), dove si rendeva conto anche di una minima bibliografia scientifica tra quella più facilmente reperibile. Anche la Fuci come federazione, l’anno scorso e quest’anno, si è impegnata a riflettere in questo senso nei suoi documenti assembleari.
Per quanto non sia elegante autocitarsi, è interessante dimostrare la presenza coerente di voces clamantes in deserto, a fronte di un’indifferenza se non di un’ostilità da parte dei detentori finali e anche intermedi delle responsabilità di governo. All’interno della Scuola Normale discorsi critici occupano la cerimonia dei diplomi ormai da anni, in un climax che invito ad ascoltare dal canale Youtube della Scuola. Al di fuori, istituti autorevoli come Istat, Almalaurea e OCSE-PISA affiancano studiosi e associazioni nell’affastellare analisi e dati. Perché allora nessuno ascolta?
Claudio Giunta, nell’articolo Non sono in credito per Il Post del 28 luglio, riassume buona parte delle critiche mosse al discorso dei normalisti, da quelle più istintive a quelle più riflessive. Riconoscendo il valore del discorso nei suoi rilievi più puntuali, numerosi, Giunta principalmente si muove su tre assi: uno paternalista, di sfiducia si potrebbe dire culturale verso i giovani e i loro apporti; uno morale, che muove dubbi sulla coesistenza di una critica a un sistema con l’ingresso in esso degli stessi critici, i normalisti appunto che ne sarebbero parte integrante; l’ultimo culturale, sulla possibilità di una lettura «neoliberista/neoliberale» della crisi universitaria.
Non si può sorvolare sul fatto che, nel tentativo di coniugare onestà e antipatia, Giunta accenni ai punti su cui non può non essere d’accordo passandoli velocemente in rassegna, e sono quelli che colgono passo per passo gli elementi negativi del sistema vigente; ma questa rassegna, per quanto tenti di renderla rapida, si dimostra paradossalmente corposa (quote premiali, tagli lineari, sistema di valutazione, precarizzazione etc.). Questo a dimostrazione che se si va nel concreto i nodi sono più in comune di quanto si voglia ammettere. Sulla critica all’uso di una categorizzazione specifica – perché è questo un tratto saliente, divisivo e pregnante del discorso dei normalisti, l’indicazione ostentata e cosciente del «neoliberalismo» come il processo negativo generale entro cui inserire la questione universitaria – non si può che rimandare alle risposte, a mio avviso lucide e tempestive, di Domani del 28 luglio, Dalla Normale di Pisa riparte la battaglia contro l’università elitaria, e dell’Internazionale del 3 agosto, Un discorso che ricorda l’importanza dell’istruzione. Questi articoli, anche con le letture cui rimandano, rivelano come l’accusa al «neoliberalismo» non possa più essere considerata un ideologismo, il quale tenta di inventare un nemico omogeneo che incarni tutti i problemi (è l’opinione di Giunta, sulla falsariga di molti altri); bensì ormai una galassia intellettuale sviluppata, matura (sì anche all’interno delle istituzioni messe in discussione), e che attraversa le discipline nell’articolare una ricostruzione diacronica e impegnata di scelte politiche globali e riflessioni intellettuali generali riassumibili in un orizzonte comune.
Infine lo slancio antigiovanile, in realtà è quello che apre l’intervento di Giunta. Citando il Larkin del The nearer you are to being born, the worse you are, su questa linea giustifica prima di tutto a sé stesso l’antipatia subitanea provata davanti ad un intervento così radicale da parte di un gruppo di giovani. Credo che meriti lo sforzo di superare il naturale sdegno morale davanti a posizioni del genere, e anche le risposte, più riflesse, sul valore pratico e etico della gioventù (passando anche per le mere citazioni di capisaldi profondi della cultura occidentale, come il The Child is the father of the Man di Wordsworth). Il punto è interessante perché non è Giunta ma tutta una stagione a dimostrare diffidenza verso le generazioni nuove.
Già accennavo a questo nel numero di aprile 2020 per questa rubrica, I vostri giovani avranno visioni. D’altra parte il ben più autorevole Mulino toccava queste note con Tutte le colpe del divano di casa del 22 settembre 2020, e così via. Voglio dire, sono più di venti anni – almeno – ormai che periodicamente, per convinzione, per posa o per mezzo, si osservano veri e propri assalti culturali e simbolici alla figura del giovane. Il giovane è mammone, pantofolaio – bamboccione, barrocciaio – poltrone, guerrafondaio. E ovviamente choosy, per non dimenticare. Sembra di sentire il buon Mousqueton, quando nei Tre moschettieri enumera le “virtù” in rima del padrone Porthos.
La gioventù italiana, che pure si è dimostrata ancora capace di attivare movimenti innovativi per il paese (Friday for future, Sardine, Noglobal, Onda, in parte anche il Movimento 5 Stelle) e mantenere in vita la rete di associazionismo e volontariato nazionale, è presa all’ingrosso e considerata lo specchio negativo del paese in maniera più metodica e più incisiva che per quei gruppi sociali che alle negatività del paese hanno contribuito davvero nel tempo. Non dimentichiamo che anche il discorso dei normalisti è venuto alla ribalta non per sé, ma perché oggetto dell’attenzione di un ex uomo delle istituzioni ancora seguito e influente. Bisogna allora porsi una domanda, la cui risposta determinerà il posizionamento di ciascuno nel prossimo futuro: è utile eccitare la contrapposizione tra gruppi generazionali, al fianco di altre contrapposizioni già presenti nel paese, nel tenere i legami di solidarietà che fanno della nostra una comunità nazionale, repubblicana e democratica? La risposta, si è visto nel passato più o meno recente, non è scontata.