di Francesco Romano • Ha avuto risonanza l’attenzione di Papa Francesco per la recente pubblicazione di un breve scritto di Emiliano Antonucci intitolato “Non sparlate degli altri” (Effatà Editrice 2021). Il Papa ha curato la prefazione del libro e ne ha donato una copia a tutti i dipendenti della Città del Vaticano disponendo che ognuno apponesse la propria firma su un modulo per certificare l’avvenuto ritiro.
Il Papa scrive che “le parole possono essere baci, carezze, farmaci oppure coltelli, spade o proiettili. Con la parola possiamo bene-dire o male-dire, le parole possono essere muri chiusi o finestre aperte […] e siamo ‘terroristi’, quando buttiamo ‘le bombe’ del pettegolezzo, della calunnia e dell’invidia”, al contrario “il silenzio è anche la lingua di Dio ed è anche il linguaggio dell’amore, come sant’Agostino scrive: ‘Se taci, taci per amore, se parli, parla per amore’. Non sparlare degli altri, non è solo un atto morale, ma un gesto umano, perché quando ‘sparliamo’ degli altri, sporchiamo l’immagine di Dio che c’è in ogni uomo”.
La calunnia di cui parla il Papa è fonte di avvelenamento del nostro ambiente vitale che finisce per attrarre come in un vortice anche persone che solitamente agiscono in buona fede. L’insegnamento del Papa fatto in modo pastoralmente divulgativo, ma per questo non di minore autorevolezza, offre l’occasione di non fermarci al pettegolezzo, alle parole sussurrate all’orecchio, ma amplificate per effetto del passaparola. L’insegnamento della Chiesa sia in ambito morale che giuridico si è soffermato sulla vulnerabilità della buona fama di cui ciascuno deve godere e sul diritto che la tutela.
Se da un lato il pettegolezzo è una malsana e complicata abitudine da superare, esiste una lesione della buona fama che può essere arrecata anche a livello istituzionale con procedure messe in atto in modo non adeguato da chi è chiamato all’esercizio della giurisdizione, come per esempio nell’esecuzione delle indagini preliminari al processo penale, oppure nella tutela del segreto d’ufficio o delle clausole di riservatezza apposte a un atto amministrativo. Nell’ordinamento canonico e in particolare nel Codice di Diritto Canonico sono ricorrenti queste tutele.
Il diritto alla buona fama è connesso alla natura dell’uomo come suo ius nativum. Il Legislatore canonico enuncia questo diritto al can. 220 del Codex estendendolo a “chiunque”, anche se non cattolico o non battezzato, e lo inserisce nel contesto di una normativa compresa tra i cann. 208-223 che delinea i rapporti all’interno di una realtà ecclesiale vista come comunione. Sull’argomento un nostro contributo più ampio e approfondito è stato pubblicato sulla Rivista “Teresianum” intitolato “Dimensione pubblica ed ecclesiale del diritto alla buona fama e la sua tutela penale nei cann. 220 e 1390 §§2-3 del CIC” (Teresianum 59 (2008) 285-313).
La “persona” nel suo patrimonio identificativo costituisce nell’ordinamento canonico il soggetto attorno al quale si incentrano diritti e doveri. Nell’uso corrente “diritti umani”, “diritti inviolabili” e “diritti fondamentali” sono termini utilizzati in modo promiscuo, ma equivalente, e stanno a indicare i diritti che dovrebbero essere riconosciuti a ogni individuo come tale. Ciò sembrerebbe attestare, proprio a livello di senso e sapere comune, l’intimo e complesso rapporto che da sempre lega indissolubilmente diritto naturale e diritto positivo.
La dignità dell’uomo viene coronata da Dio con una dimensione di onorabilità per la sua ammissione a esserne partecipe come suo figlio, specie in forza della rigenerazione in Cristo. Il cristiano, poi, essendo creatura di Dio e unito a Cristo che è la Verità rivelata, ha come esigenza la radicale adesione al supremo comandamento dell’amore e alla verità secondo l’insegnamento pratico sia il vostro parlare sì, si; no, no. Il di più viene dal maligno. L’amore per la verità e per il prossimo si oppone alla falsificazione della rappresentazione della realtà che può sfociare nella calunnia, nell’adulazione, nella falsa testimonianza e nel giudizio temerario.
Nel pensiero di S. Tommaso la fama che l’uomo possiede rientra tra i beni temporali più preziosi. Infatti, le qualità fisiche, morali e sociali generano risonanze nella persona che le detiene, dandole la percezione soggettiva della propria dignità e il senso dell’onore.
La buona fama del cristiano è un bene temporale prossimo ai beni spirituali e include, oltre alle qualità umane, le virtù cristiane, l’integrità della fede, la permanenza della comunione del fedele con la Chiesa e con Dio.
La diffamazione, che ha come base la violazione della legge della creazione e della redenzione, costituisce un vulnus per il bene comune della Chiesa. La diffamazione, inoltre, tende a compromettere la posizione del fedele nel corpo sociale della Chiesa e a offuscare il suo status giuridico fondato sul battesimo. Viene compromessa anche l’immagine e la credibilità della Chiesa nell’agire dei suoi componenti con la perdita della bona existimatio, e, infine, la salus animarum di chi delinque e di quanti, attratti dal vortice scandalistico, si associano in uno stesso delitto contrario alla carità e alla verità.
L’ordinamento canonico non può che offrirci una prospettiva ecclesiale in tema di tutela del diritto alla buona fama perché la restaurazione della comunione ecclesiale deve coincidere con la restaurazione dell’ordine della carità che è stata violata. Per questo l’irrogazione della pena non avrebbe alcun senso e valore se fosse concepita come pena “vendicativa” e non tenesse conto della finalità salvifica di quanti necessitano di essere reintegrati nella comunità come membra vive della Chiesa.
Società ferita e colui che delinque rientrano in un unico progetto della Chiesa di restaurazione della comunione in cui l’emendamento del reo segna il reinserimento di un membro nel suo Corpo tornando a renderlo partecipe delle sue funzioni.
Si comprende, pertanto, perché l’attenzione al reo di diffamazione sia centrale nella prospettiva pastorale del Legislatore. Al diritto di ogni uomo secondo il can. 220 di vedersi tutelata la buona fama, di cui “chiunque” gode, corrisponde la sanzione penale prevista dal can. 1390 §2 per chi, soggetto all’ordinamento canonico (can. 11), viene meno a questo dovere.
Il danno provocato dal delitto di diffamazione travalica la sfera meramente privatistica della parte offesa che l’ha subita per entrare nella dimensione giuridica che attiene all’interesse pubblico della Chiesa.
La tutela penale del diritto alla buona fama non si ferma al diritto reclamato dal soggetto passivo, colui che subisce la diffamazione. Per il principio di presunzione d’innocenza, alla persona incolpata deve essere preservato il diritto di tutela della buona fama (can. 1717 §2).
A nessuno potrà essere irrogata una pena senza essergli stato garantito il giusto processo (can. 1720 ss.). Soltanto in esso si forma la prova e viene assicurato il diritto di difesa.
L’ordinamento giuridico della Chiesa tutela anche i diritti del presunto reo, che includono oltre al diritto di difesa anche il diritto alla buona fama, con una procedura complessa tenendo conto che molto spesso la persona incolpata si trova in posizione subalterna per il vincolo di obbedienza al proprio superiore. Non può essere irrogata una sanzione penale intesa come privazione di un diritto, inferta e fatta accettare al “suddito” in forza del vincolo di obbedienza, oppure con una giustizia sommaria, sbrigativa che svuota il sistema giuridico delle tutele previste dalla legge al solo fine di ottenere la punizione, magari a scopo esemplare, dimostrativo. Un siffatto modo di adempiere la funzione di giudicare servendosi di un rito approssimativo, senza verificare la comprovata e reale colpevolezza, potrebbe sfuggire agli uomini, ma non a Dio.
Il processo penale, benché sia considerato l’extrema ratio, è finalizzato alla restaurazione dell’ordine della carità e della comunione ecclesiale. Al contrario, il ristoro del danno arrecato alla parte offesa, essendo di natura privatistica, può essere reclamato da questi in modo facoltativo e si risolve con un’azione contenziosa prevista dai cann. 128 e 1718 §4, non essendo più contemplato come sanzione penale già inscritta nel Codex previgente del 1917.
In definitiva, l’esistenza di tutta la normativa che ha per oggetto la “buona fama” attesta la volontà del Legislatore canonico di apportare strumenti giuridici sempre più idonei in ordine alla realizzazione del bene comune della Chiesa.