di Leonardo Salutati · È passato inosservato ai più, se si escludono alcuni giornali specializzati, il cinquantennale di un fatto che ha innestato un processo di cambiamento dell’economia e della politica mondiale di cui continuiamo ancora oggi a vivere le conseguenze.
La sera del 15 agosto 1971, cinquant’anni fa, il presidente USA Richard Nixon, tenne in tv un discorso in cui annunciava la decisione di porre fine al “gold standard”, ovvero la possibilità, riconosciuta solo per le banche centrali degli Stati e non per i privati, di richiedere in ogni momento la conversione in oro delle loro riserve in dollari al cambio ufficiale di 35 dollari per oncia.
Le banche compresero subito che la mossa del presidente americano, di fatto, metteva fine al sistema monetario internazionale nato a Bretton Woods nel secondo dopoguerra, cioè il regime dei cambi fissi che regolava i rapporti tra le maggiori monete, tanto che in tutto il mondo vennero subito sospesi cambi e quotazioni delle valute, introducendo il “cambio fluttuante”, da quel momento sotto la minaccia costante della speculazione dei mercati valutari. Quel giorno fu anche l’inizio della “deregulation”, ovvero di quel processo per cui i governi cessano i controlli sul mercato eliminando le restrizioni all’economia, con il fine di liberalizzare le operazioni di mercato considerato come un organismo autoregolatore.
Con la decisione unilaterale del 15 agosto si aprì un periodo d’instabilità che portò alla svalutazione della valuta americana, che favorì i conseguenti shock petroliferi del 1974 e del 1979 e, alla fine degli anni settanta, portò i tassi di interesse della Federal Reserve al 20%, provocando uno choc economico globale senza precedenti. L’intento di Nixon era quello di indurre i Paesi industrializzati a rivalutare le loro monete rispetto al dollaro per ridurre il crescente deficit della bilancia dei pagamenti americana. Gli effetti, però, furono fuori controllo e incalcolabili, in quanto le nuove «regole del gioco» spianarono la strada alla globalizzazione della finanza.
Per inciso, anche se di enorme rilevanza alla luce degli sviluppi successivi, a questo si aggiunga che, sempre nel 1971 tra il 9 e l’11 luglio, l’allora Segretario di Stato Henry Kissinger, organizzò degli incontri segreti con gli esponenti politici cinesi per preparare la visita del presidente Nixon l’anno successivo, nei giorni dal 21 al 28 febbraio 1972, di fatto dando il via alla nascita di quel soggetto economico globale che è la Cina odierna, con tutto quel che consegue.
Dall’agosto del 1971 gli Stati Uniti hanno affrontato i loro deficit di bilancio e le loro spese crescenti stampando dollari quasi senza limiti venendo meno l’obbligo di possedere una quantità d’oro pari alle banconote in circolazione, tanto che se nel 1971 in USA il rapporto debito pubblico/pil era del 36,2% oggi ha superato il 125% (settembre 2021), cui si dovrebbe anche aggiungere la considerazione del forte, se non eccessivo, indebitamento del settore privato, per questo motivo sempre meno in grado di sostenere l’indebitamento pubblico USA come invece succede per Giappone, Europa e Cina.
Da cinquant’anni gli USA vivono al di sopra delle proprie possibilità tanto che per gestire un debito crescente e una situazione finanziaria sempre più complessa, hanno cambiato nel tempo molte altre norme, abbattendo l’intero apparato di regole volute dal presidente Franklin Delano Roosevelt per superare la Grande Depressione del ‘29. La deregulation è infatti continuata con i presidenti Carter e Reagan, per culminare con Clinton che nel 1999 abroga il Glass Steagall Act, la legge bancaria del 1933 che stabiliva la separazione tra banche commerciali e quelle d’investimento e che proibiva alle prime di usare i depositi e i risparmi dei cittadini in operazioni finanziarie speculative e ad alto rischio; sempre nel 1999 dispone la limitazione dei controlli sulle banche d’investimento con il Gramm – Leach Bliley Act e, nel 2000, il Commodity Futures Modernization Act esclude qualsivoglia regolamentazione dei derivati. Nel 2004, inoltre, Obama con la Voluntary Regulation, ha consentito alle banche d’investimento di detenere meno capitale di riserva, e di aumentare la leva finanziaria. È un insieme di provvedimenti che ha contribuito in modo determinante alla grande crisi finanziaria del 2008, dalla quale molti paesi stentavano ancora ad uscire quando è scoppiata la pandemia covid-19.
È evidente che la soluzione per uscire dalla crisi non sembra quella di continuare sulla via della deregolamentazione, liberalizzazione e globalizzazione senza freni che pone al centro il profitto e non la persona umana, le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Piuttosto è rintracciabile nel sempre più attuale insegnamento della Dottrina sociale della Chiesa, rilanciato continuamente da ogni Pontefice. Al riguardo Papa Francesco ha con forza recentemente invitato tutti ad una reale conversione ammonendo: «da una crisi non si può uscire uguali, o usciamo migliori, o usciamo peggiori». Dopo la crisi non è pensabile continuare con questo sistema economico di ingiustizia sociale e di disprezzo per la cura dell’ambiente, del creato, della casa comune. «Se ci prendiamo cura dei beni che il Creatore ci dona, se mettiamo in comune ciò che possediamo in modo che a nessuno manchi, allora davvero potremo ispirare speranza per rigenerare un mondo più sano e più equo… la cura del creato e la giustizia sociale: vanno insieme» (26 agosto 2020). In particolare i cristiani sono chiamati a questo impegno dando così testimonianza della Risurrezione del Signore.