di Antonio Lovascio · Prima le tragedie e le odissee del Mediterraneo, la disperata fuga da Libia e Tunisia verso le coste italiane. Ora Il crollo dell’Afghanistan,dopo il precipitoso ritiro delle truppe americane ed alleate che sono riuscite ad evacuare le ambasciate, a portare in salvo centomila fedeli collboratori lasciandone molte di più in balia degli assalitori islamici. Questo scenario risveglia in tutto l’Occidente ma specialmente in Europa vecchi fantasmi legati alle emergenze migratorie del 2015/2016. Fantasmi riemersi sull’onda delle nuove stragi consumate dall’Isis, delle violenze e violazioni dei diritte delle donne, degli attacchi alla società civile ed ai media operate dagli stessi Talebani, ritornati al potere in meno di dieci giorni, per il dileguarsi di un governo e di un esercito corrotti e inadeguati.
Il disastro umanitario che ne deriva – oltre ai massacri, alle vendette sugli afghani più “emancipati”, all’escalation del terrorismo jihadista – rischia di avere effetti immediati sull’Unione, in termini sociali e politici. Si calcola infatti siano almeno cinquecentomila gli afghani che avranno bisogno di protezione, mentre altrettanti già da tempo si trovano in Europa senza però alcun riconoscimento dello “status” di rifugiati. I leader europei, già molto distanti tra loro sul superamento del Regolamento di Dublino e l’adozione di una politica migratoria comune, temono il proliferare dei populismi di destra, soprattutto in vista delle elezioni in Germania e Francia e presumibilmente nel 2023, se non prima, anche in Italia.
Dopo i soprusi, le scie di sangue per gli attentati di Kabul, la pressione è già visibile in alcuni Paesi confinanti con l’Afghanistan. Sebbene non si manifesti ancora una situazione simile a quella siriana nel 2015, ci sono comunque gravi conseguenze da valutare. Il peggio dell’emergenza-rifugiati potrebbe essere evitato o almeno rallentato, ma sono immaginabili nuove tensioni e conflitti con corridoi di transito, come il Pakistan, la Turchia, l’Iran e la Grecia. L’Occidente, dopo il fallimento dell’operazione bellica e dei ventennali tentativi per far germogliare la democrazia a Kabul, deve ritrovare il bandolo di una solida e condivisa azione diplomatica: un approccio di dialogo con i Talebani – certo non il riconoscimento! – sembra purtroppo un passo obbligato. Ed è perciò positivo lo sforzo di Draghi per un summit straordinario dei G20 (quest’anno l’Italia ha la presidenza) dove Cina e Russia siedono insieme agli Stati Uniti, ai Paesi europei, all’India, alla Turchia e all’Arabia Saudita, ma ora vogliono contare di più. In questa sede di confronto tutti dovranno ricordarsi che dal 2005 le Nazioni Unite hanno previsto nei loro statuti il principio della “responsabilità di proteggere”, che pone in testa alla comunità internazionale il dovere di difendere i popoli quando i loro governi non vogliono o non possono farlo, usando ogni mezzo diplomatico e umanitario. Principio basato sul fatto che tutte le donne e tutti gli uomini – non si stanca di ripeterlo Papa Francesco nei suoi appelli sempre più forti e frequenti – nascono liberi e uguali. Quindi hanno tutti gli stessi universali diritti, qualsiasi sia la loro lingua, cultura o religione, anche se il loro stesso governo li nega. Certo i nostri governanti dovranno cercare di non ripetere gli errori del passato e del presente; continuare a fare processi l’uno all’altro anche per le decisioni più recenti e alcune improvvide dichiarazioni di Biden, definito “anatra zoppa”. La catastrofe della strategia Usa è stata ampiamente e lucidamente analizzata da quella vecchia volpe della diplomazia statunitense che corrisponde al 97enne Henry Kissinger: la trasformazione dell’Afghanistan in un Paese moderno richiedeva tempi non conciliabili con i processi politici americani. Ha sbagliato Biden, ma ancor più i suoi predecessori; e non di meno gli Alleati silenti. Tesi sviluppata, in un pungente editoriale sul “Corriere della Sera”, dallo storico Paolo Mieli. Secondo il quale non è giusto far ricadere interamente sull’attuale presidente Usa “qualcosa di più di una responsabilità oggettiva”. Nella lunga stagione in cui fu vice di Obama, Biden maneggiò con grandissima cautela il dossier Afghanistan. Fu poi Donald Trump ad impostare, con i negoziati di Doha, le modalità di uscita dal conflitto. Tutto ciò sulla base di un’esplicita trattativa con quello che nei documenti ufficiali viene tuttora definito “Emirato islamico afghano”, che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come stato ed è noto come i Talebani.
Quei colloqui andarono avanti un anno e mezzo e si conclusero con un accordo, il 29 febbraio del 2020, che prefigurava l’evoluzione odierna. Senza alcuna sostanziale obiezione da parte di quel che siamo soliti definire Occidente. “All’epoca – ha evidenziato lo storico – non c’era atto di Trump (neanche un tweet) che non provocasse polemiche interminabili. Curiosamente, però, nessuno o quasi ebbe alcunché da ridire sui patteggiamenti Usa di Doha. Neanche sul documento con cui si annunciava che i poteri sarebbero tornati nelle mani dei Talebani. Anzi, tutto avrebbe dovuto realizzarsi in maggio, poche settimane dopo l’insediamento di Biden, se non con una dilazione di qualche mese”. Giustamente Mieli ha fatto notare che, “se a giugno nel G7 in Cornovaglia qualcuno avesse suonato l’allerta, avremmo avuto un centinaio di giorni per procedere ad un’evacuazione dall’Afghanistan assai più ordinata. Magari protetta da uomini armati rimasti sul territorio. Invece tutti, anche gli europei, hanno programmato di riportare in patria i militari lasciando sostanzialmente a quel che restava dell’esercito statunitense l’incombenza di proteggere l’esodo degli afghani”.
Ora che la più importante missione della storia della Nato si è conclusa con una debacle e l’Alleanza atlantica guidata da Washington si è frantumata prima di ridisegnare il suo futuro (urge una rifondazione!), il Vecchio Continente deve cercare di non indebolirsi ulteriormente nei confronti di potenze come Russia e Cina, che vorrebbero aumentare la loro influenza in Asia e in altre parti del mondo, dopo quella acquisita in Medio Oriente. Nonostante il Covid, l’Ue ha una ripresa economica che va al di là delle più ottimistiche previsioni e che sarà rafforzata dai Recovery. Deve quindi fare uno scatto per non perdere l’ultima occasione che ha di recitare un ruolo non marginale. Serve naturalmente, come ha chiesto Mattarella, maggior coraggio e,soprattutto, un salto in avanti nell’autonomia geopolitica e nella capacità di difesa europea, per attuare finalmente una politica seria ed equa di accoglienza e distribuzione dei rifugiati. Ben diversa dalle continue risse cui abbiamo assistito in questi anni e negli ultimi mesi di fronte all’emergenza profughi del Mediterraneo. Gli egoismi ed i populismi hanno purtroppo prevalso sul dramma della guerra, dello sfruttamento, della corruzione, della mancanza di libertà, della tratta di donne e bambini. E se ne vedono i risultati.