di Carlo Nardi · Si tratta di scritti, di vite umane, e di morti; e di bimbi o bimbe, e di mamme e babbi. E di cristiani, come si diceva allora, e talora piangere. Questo col Pascoli in Sera festiva tra una delle Myricae (X). Così con Giovanni Pascoli, Myricae, introduzione di Pier Vincenzo Mangaldo, note di Franco Melotti, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1981.2001, e quindi:
Sera festiva
O mamma, o mammina, hai stirato / la nuova camicia di lino?
Non c’era laggiù tra il bucato, / sul bossolo o sul biancospino.
Su gli occhi tu tieni le mani … / Perché? Non lo sai che domani …?
din don dan, din don dan.
Si parlano i bianchi villaggi / cantando in un lume di rosa;
dall’ombra de’ monti selvaggi / si sente una romba festosa.
Tu tieni a gli orecchi le mani … / tu piangi; ed è festa domani …
din don dan, din don dan.
Tu pensi … Oh! ricordo: la pieve … / quanti anni ora sono? una sera
il bimbo era freddo, di neve; / il bimbo era bianco, di cera:
allora sonò la campana (perché non pareva lontana?)
din don dan, din don dan.
Sonavano la festa, come ora, / per l’angiolo; il nuovo angioletto
nel cielo volava a quell’ora; / ma tu lo volevi al tuo petto,
con noi, nella piccola zana: / gridavi; e lassù la campana …
Così il Pascoli. Sono da leggere anche le parole del discorso: “è il discorso di un bimbo dolorosamente colpito perché la mamma non partecipa alla gioia di una vigilia festiva. Ma il giorno di festa è anche l’anniversario della morte di un fratellino e la mamma è chiusa in quel ricordo che a poco a poco va delineandosi anche nel bambino. Alla fine di ogni strofa le onomatopee vogliono riprodurre lo scampanio di festa, ma finiscono per trapassare nei rintocchi di un lontano funerale”.
Mia mamma mi cantava. L’aveva imparata da bambina alla scuola elementare a Castello, là ove anch’io l’ho imparata, e pur anch’io la canto ancora.
E in tutto questo son lucciconi.