di Alessandro Clemenzia · Nel corso dei secoli si sono alternati due differenti e complementari sguardi sul sacramento della Riconciliazione, influenzati soprattutto dal contesto culturale in cui la Chiesa ha vissuto: uno ha sottolineato soprattutto l’indole individuale (senza mai perdere di vista la sua dimensione ecclesiale), l’altro invece ha marcato la sua indole comunitaria (senza obliare l’individualità del penitente). Il Magistero è più volte intervenuto per ribadire l’importanza di entrambi gli sguardi, per cogliere nella sua globalità la prassi confessaria.
L’odierno contesto culturale è determinato da una visione neoromantica della realtà; pur evidenziando l’importanza del noi comunitario, ciò che determina il giudizio è in particolare il sentimento dell’io, non lasciando esente da questo atteggiamento anche il popolo di Dio. Questa logica, non di rado, è entrata anche nella riflessione teologica ed ecclesiologica, per cui dietro la ripresa di alcune questioni, l’intento è quello di arrivare al sentimento della gente. Eppure, tornando al sacramento della Riconciliazione, se il contesto odierno è così marcatamente centrato e concentrato sul sentimento dell’io, come mai il sacramento della Riconciliazione , che – come mostra la stessa struttura del confessionale – è così attento alla dimensione individuale, non rappresenta un luogo di raccolta dei fedeli per farli riappropriare del valore e del significato della Chiesa?
Si può rispondere a tale domanda affermando che il sacramento in questione è già di per sé un’esperienza ecclesiale, un evento comunitario, e questo non soltanto in virtù della presenza del confessore, ma anche per quella dello stesso penitente.
Nei Prenotanda al rito della Penitenza, lì dove sono presentate la preghiera del penitente e l’assoluzione del presbitero, viene spiegato «l’aspetto ecclesiale del sacramento per il fatto che la riconciliazione con Dio viene richiesta e concessa mediante il ministero della Chiesa» (n. 19). È necessario, dunque, andare a fondo sul significato dell’affermazione «mediante il ministero della Chiesa».
Il recupero della dimensione ecclesiale è di fondamentale importanza per non ridurre il sacramento della Riconciliazione a un atto unicamente interiore e intimistico. Se si rivolge l’attenzione alla preghiera del Confiteor, che introduce ogni giorno la celebrazione eucaristica si può scorgere la marcata presenza dell’io, come afferma tutto il popolo di Dio: “io ho peccato”, “io confesso”. Si intravede così quanto è scritto nella Lumen Gentium: «Ecclesia … sancta et semper purificanda, poenitentiam et renovationem continuo prosequitur» (n. 8). La Chiesa è Santa e ha sempre bisogno di purificazione. È vero: è il singolo io che si confessa ma in comunione con gli altri, con altri io dove ciascuno riconosce la propria colpa, il proprio peccato. Non solo: in questa confessione davanti a Dio ciò che si domanda è la comune riconciliazione. L’io deve sempre essere salvaguardato, come insegna il Motu proprio Misericordia Dei. Dio, infatti, non tratta il singolo come se fosse parte di un collettivo, ma conosce ciascuno per nome. Per questo motivo sono parti costitutive del sacramento, sia la confessione personale dei peccati, sia il perdono offerto al penitente (l’assoluzione collettiva è una forma straordinaria ed è possibile solo in determinati casi di necessità). Dunque, affermare la dimensione ecclesiale del sacramento non oblia il singolo io; quest’ultimo viene sempre salvaguardato.
Tutto il noi ecclesiale è penitente. La santità e il peccato della Chiesa hanno impedito, sin dalle origini della comunità cristiana, toni trionfalistici: i cristiani sono coloro che non hanno un’umanità migliore degli altri, ma hanno una umanità graziata. Sin dai primi secoli, infatti, non ci si è vergognati di parlare della Chiesa ricorrendo ad alcune figure bibliche di prostitute perdonate.
L’evidenza del peccato nel noi della Chiesa è sempre stato colto come qualcosa di paradossale. Eppure non basta parlare del peccato nella Chiesa, a causa di un certo numero di peccatori al suo interno, ma anche del peccato della Chiesa, come soggetto responsabile di alcuni atti. Come il noi della Chiesa non è la somma degli io che la compongono, ma qualcosa che precede i singoli e conferisce loro una particolare nuova identità, così il peccato della Chiesa non può essere compreso come un recipiente riempito dei peccati di ciascuno. Paolo VI ha chiaramente affermato che la Chiesa, per essere evangelizzatrice, deve mostrarsi essa stessa evangelizzata, vale a dire aperta all’ascolto di Cristo e disposta a fare scaturire dall’incontro col suo Signore una nuova prassi. Recuperando quanto affermato nell’Esortazione postsinodale Reconciliatio et paenitentia (2 dicembre 1984), soltanto una Chiesa riconciliata può essere una Chiesa riconciliatrice.
Perché è importante sottolineare che tutta la Chiesa è peccatrice? La tentazione è sempre quella di cogliere l’ecclesialità del sacramento della Riconciliazione soltanto nel confessore, in colui che personifica quanto è riportato nella formula di assoluzione: «mediante il ministero della Chiesa». Un’altro rischio sarebbe quello di cogliere l’ecclesialità nel sacramento stesso, il quale, essendo sacramento della Chiesa-sacramento, ha in sé una sua ecclesialità. C’è tuttavia un’ecclesialità anche nel singolo penitente, anche se egli spesso non è capace di raggiungere una piena consapevolezza di ciò.
Ma come mettere insieme l’io del singolo penitente con il noi ecclesiale? Il singolo penitente è la Chiesa stessa: anche in lui si può rintracciare quell’ecclesialità che, più facilmente, si trova nel ministro confessore. In realtà, anche il peccato non è mai solamente individuale, ma ecclesiale, perché ciò che una persona compie ha sempre delle conseguenze sociali. Il peccato dell’io, infatti, va a contaminare anche tutte le relazioni che stanno intorno all’io. Per questo, recuperando una delle più belle frasi di Papa Francesco contenuta in Evangelii gaudium: «Gesù ha redento non solo il singolo individuo, ma anche la relazione sociale» (n. 178).
Proprio per questo carattere ecclesiale del sacramento della Riconciliazione, che non riguarda solo il ministro, ma anche il penitente, il professor Andrea Drigani, in un articolo recentemente uscito su Il mantello della giustizia, ha approfondito il tema del foro interno e del foro esterno, sottolineando come l’uno e l’altro riguardino anche il penitente, proprio in virtù della sua ecclesialità: se il ministro è chiamato alla segretezza, da parte del penitente deve esserci almeno riservatezza (anche se nulla è previsto dal Codice di diritto canonico sulle eventuali dichiarazioni pubbliche del penitente).
Il sacramento della Riconciliazione, dunque, ha una intrinseca dimensione ecclesiale, data dal sacramento in quanto tale, dalla ministerialità del confessore e dallo stesso penitente. L’assoluzione, infatti, non tocca soltanto quest’ultimo, ma tutte le relazioni che l’io ha costruito, raggiungendo i tu con i quali egli si è rapportato, sia nel bene che nel male. Così anche il penitente, per la sua ecclesialità, è un intermediario della grazia, in quanto essa, pur essendo conferita sacramentalmente al singolo, attraverso di lui raggiunge la molteplicità di persone. Ogni grazia conferita all’io è già all’insegna del noi.