E Pilato dice a Gesù: «che cos’è verità?»

440 480 Francesco Romano
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di Francesco Romano • Il Vangelo di San Giovanni riferisce il particolare del processo davanti al prefetto romano Ponzio Pilato che alle parole di Gesù, “Io sono nato per questo e per questo sono venuto nel mondo per testimoniare la verità. Chiunque appartiene alla verità, ascolta la mia voce” (Giovanni, 18, 37), gli dice con tono sarcastico: “che cos’è [la] verità?” (Giovanni, 18, 38). Non deve sfuggire che questa domanda ironica e demolitiva di Pilato è rafforzata proprio dalla omissione dell’articolo “la” davanti a “verità” che invece viene introdotto nelle versioni in lingua italiana. Nel testo originale greco non c’è l’articolo ed è detto semplicemente “τί ἐστιν ἀλήθεια;” cioè “che cos’è verità”. Non si tratta di una sfumatura o di puro stile linguistico, ma di significato sostanziale. Pilato non entra nel merito dell’asserzione fatta da Gesù, la verità che proclama, ma lo azzittisce sradicando la nozione stessa di verità e quindi la possibilità che ne esista una.
La parola “verità” veicola uno dei concetti che si legano inscindibilmente alla nostra stessa ragion d’essere. Tutto il senso del nostro esistere gira intorno alla verità, la insegue, crede di possederla, la cattura come una preda, gli scivola di mano, la smarrisce e ricomincia da capo in un circuito senza interruzione.
Analizzando il termine “ἀλήθεια” (alétheia) ne comprendiamo meglio il senso. Si tratta di una parola composta dal prefisso alfa “α”, detto privativo, e dal verbo “
λανθάνω” (lantháno), da cui deriva “latente”, “latitante” ecc, che significa nascondere, coprire. Quindi per i greci la verità è ciò che non resta “latente” e si svela, si impone con il ragionamento, l’investigazione.
Ciò che appare nell’atto di svelare, la “
alétheia”, è tutt’altro che apparenza. Svelare non è semplicemente apparire, sembrare. Un noto proverbio dice sapientemente “l’apparenza inganna”. In greco si ricorre al termine “δόξα” (dóxa) per indicare l’apparenza, in stretta derivazione dal verbo δοκέω (dokéo) che significa “sembrare”.
Il senso di “dóxa”, per esempio, nasce dall’ammirazione che l’eroe o il sapiente suscitavano apparendo nella gloria, nella fama e nello splendore, ma questo apparire, questa “dóxa” genera opinione, fama, che è cosa ben diversa dalla verità (alétheia). Sia “alétheia” che “dóxa” implicano l’atto del disvelare, dell’apparire. Tuttavia l’opinione pur fondandosi anch’essa sull’apparire, sul mettersi in luce che genera fama, è solo una congettura che può portare a conclusioni vere come false. Alla “dóxa” come apparenza può imporsi la “alétheia” come verità, cioè come operazione di disvelamento di qualcosa che non esiste per rimanere nascosto.
Nella “dóxa” i concetti di apparenza e opinione si intersecano, l’apparenza genera opinione che su di essa si fonda mostrando il carattere della mutevolezza propria di ciò che appare. L’opinione come congettura, è un’ipotesi, un atto del presumere, “rei incertae probabilis coniectura”, come dicono i giuristi a proposito di presunzione giuridica, benché sempre inscritto nel quadro di un procedimento logico induttivo che cerca di risalire da fatti certi alla dimostrazione di un fatto incerto o controverso che potrà avere conclusioni tanto vere quanto false. La stessa verità processuale, che si fonda sul libero convincimento del giudice nell’ordinamento statuale, o sulla sua certezza morale nell’ordinamento canonico, non è una verità assoluta come recita il brocardo: “res iudicata pro veritate habetur/accipitur”, la cosa giudicata è ritenuta verità, ma la veridicità del giudizio emesso dal giudice può essere ribaltata nei gradi di appello (processo civile,
art. 2909 c.c.; processo penale, art. 649 c.p.p.; processo canonico can. 1608 §§1-3).
La verità “a-létheia”, al contrario della “dóxa”, è ciò che non può rimanere nascosto e mostrandosi si impone trovando in sé l’autorevolezza che gli conferisce credibilità.
La parola “verità”, nel senso di “a-létheia” intesa come “evidenza”, significa anche “ciò che sta sopra”, “
επιστήμη” (epí-stéme) e per questo non ha bisogno di appoggiarsi all’autorevole parola di chi la esprime magari ricorrendo al linguaggio retorico della persuasione. La “epistéme” si impone per la sua evidenza senza poter essere messa in discussione o contraddetta Questa accezione originaria del termine greco “epí-stéme” è transitata nella lingua latina che la traduce con il vocabolo “scientia” con chiara perdita di significato.

Accanto ad “alétheia” ed “epistéme” la parola “verità” si arricchisce del termine κόσμος (kósmos) e della voce verbale κοσμέω (kosmèo) che in origine ancora non aveva assunto il significato di ordine fisico contrapposto a cháos. Il significato più antico di kósmos indica la parola che si impone su “tutto” senza possibilità di essere smentita. In questo contesto kósmos ed epistéme sono sinonimi perché indicano la verità, la alétheia, ovvero ciò che si impone per se stesso così per come si mostra e non una opinione prodotta da ciò che è solo apparenza, dóxa, come può essere la fama di cui uno gode, frutto dell’opinione generalizzata per come appare.

Kósmos offre anche il senso del tutto, cioè la totalità delle cose sia manifeste che non manifeste al di fuori delle quali non esiste altro. Per questo, kósmos ed epistéme indicano entrambi la verità, l’alétheia, e sono tra loro inscindibili in quanto la verità non è parziale e può imporsi nella sua evidenza solo se si rivolge alla totalità del tutto.
Platone nel Timeo dice: “Noi non siamo come le piante della terra, perché la nostra patria è il cielo, dove fu la prima origine dell’anima e dove Dio, tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, tiene sospeso l’intero nostro corpo che perciò è eretto” (Timeo, 90 a-b). Nel differenziare l’uomo dalle piante e dagli animali, Platone attribuisce alla sua posizione eretta, la testa sospesa nel cielo, la capacità di vedere l’orizzonte delle cose che ha davanti a sé, cioè la loro essenza, le idee collocate sopra al cielo, l’iperuranio (hypér-ouranós).
Platone chiama filodoxi gli uomini che si fermano alle sembianze delle cose (dóxa), cioè all’apparenza sensibile e ingannevole delle cose, le cose della terra che vedono anche gli animali. Essi “vivono come in un sogno perché confondono l’apparenza con la realtà” (Repubblica, 476 c). I filosofi, che “sono in condizione di veglia”, sono coloro che cercano la verità (alétheia), ed entrano nella natura intelligibile delle cose, quel sapere (epistéme) certo e incontrovertibile che è in grado di imporsi con la sua evidenza sopra ogni dubbio.

La filosofia greca, quindi, inaugura il problema della verità separandola dalla sembianza, dalla dóxa, dalle varie forme dell’apparire, dall’opinione che ne è alla base e la contraddistingue dalla verità.

La verità (alétheia) di cui Gesù da testimonianza di fronte a Pilato viene preceduta dall’articolo determinativo: “io sono nato per questo e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare la verità. Chiunque appartiene alla verità ascolta la mia voce”, con chiaro riferimento alla verità assoluta, non a una verità qualsiasi, soggettiva.

La replica di Pilato che pronuncia la parola “verità” omettendo l’articolo, vuole sottolineare che secondo lui non esiste una verità assoluta e che non riconosce in Gesù l’autorevolezza per parlare di verità assoluta. Pilato non vuole neanche ascoltare le parole di Gesù, ma “detto questo, uscì dove il tempo aoristo del verbo “uscire” (ἐξῆλθεν) indica qui un’azione istantanea che si consuma nell’atto di pronunciare la frase “che cos’è verità”.

La verità proclamata da Gesù è alétheia, cioè quanto viene rivelato, svelato, che non rimane nascosto, legato alla sua stessa persona.
La verità nel senso pregnante di alétheia si ritrova nel Prologo del Vangelo di S. Giovanni: “
E la Parola si fece carne e venne ad abitare fra di noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità (alétheia) […]. Poiché la legge è stata data per mezzo di Mosè; la grazia e la verità (alétheia) sono venute per mezzo di Gesù Cristo. (Giovanni 1, 14, 17).

Con Gesù la verità è testimoniata dalla sua stessa persona che la manifesta: “Io sono la via, la verità (alétheia) e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. (Giovanni 14, 6). La verità (alétheia) svelata, portata alla luce, è la verità assoluta, Gesù è l’unica verità, l’unica via che conduce al Padre, l’unica vita che genera vita.

Noi non siamo stati testimoni oculari della venuta di Cristo, ma la nostra fede si fonda sulla rivelazione che la Scrittura ci fa della verità, cioè della persona di Cristo che pone la Parola di Dio sullo stesso piano della verità: “Santificali nella verità. La tua parola è verità” (Giovanni, 17,17), la Parola che ci è giunta attraverso lo Spirito Santo, “lo Spirito della verità” (τὸ πνεῦμα τῆς ἀληθείας) (Giovanni, 14, 17; 15, 26; 16, 13); “ed è lo Spirito che rende testimonianza, perché lo Spirito è “la” verità (ἡ ἀλήθεια)” (1 Giovanni, 5, 6).

Francesco Bacone inizia il suo saggio “Sulla verità” (Of Truth) ispirandosi alla frase pronunciata da Pilato: “che cos’è verità”. Bacone osserva che “Pilato non rimase ad aspettare una risposta”, non meritava una risposta perché non era dalla parte della verità. Qui risuonano le parole di Gesù: “Chiunque appartiene alla verità, ascolta la mia voce” (Giovanni, 18, 37). Secondo Francesco Bacone “il nobile disprezzo di un romano davanti all’uso sfacciato della parola verità ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica frase che possieda valore”.

Un semplice articolo determinativo non pronunciato da Pilato prima della parola “verità” segna la distanza abissale che lo separa da Gesù.

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Francesco Romano

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