di Francesco Vermigli · Peregrinantes in spem è, come noto, il motto del Giubileo che la scorsa notte di Natale papa Francesco ha aperto nella Basilica Vaticana. E così Spes non confundit sono le prime parole – ispirate a Rm 5,5 – con cui inizia la bolla di indizione. Prima di procedere oltre nella disamina del tema della speranza, non possiamo fare a meno di notare come quel motto sia stato tradotto in un modo che non ci convince; mentre le parole iniziali della bolla sono riportate in una maniera piuttosto naturale con «la speranza non delude», sulla scorta della traduzione italiana del 2008.
Prima, dunque, di andare a verificare che cosa sia la speranza e per chi valga questa speranza (nel titolo dell’articolo: come e per chi), confessiamo che facciamo davvero fatica a capire la ragione per la quale quel motto sia stato tradotto con “pellegrini di speranza”. Non v’è chi non sappia che in + accusativo si usa nel latino per il moto a luogo che indica entrata, penetrazione, ingresso… con la conseguenza che con questa traduzione piuttosto piatta (come se ci fosse stato un semplice genitivo: peregrinantes spei) si perde quel significato per cui la speranza si pone davanti al credente e all’uomo dei nostri tempi come qualcosa da conquistare, da penetrare. Si perde quel significato, cioè, secondo cui la speranza è qualcosa in cui si entra progressivamente; prima ancora di essere qualcosa che ci accompagna nel nostro pellegrinaggio (nel caso sarebbe stato peregrinantes in spe o semplicemente spe).
Non si intendano queste considerazioni come un inutile sfoggio di erudizione (erudizione, poi, si fa per dire, dal momento che già uno studente liceale l’avrebbe tradotta diversamente…). Non ci pare che sia una cosa marginale questa traduzione nella sostanza incomprensibile, perché perdere quel senso di conquista, di progressione, di penetrazione offre una ferita non da poco alla percezione corretta della speranza, in un tempo in cui non solo la pietà (come nel celebre canto degli alpini della Brigata Julia e poi diventato canto dei partigiani, grazie a Nuto Revelli), ma anche la speranza pare essere morta. Sì, perché proprio oggi, proprio ai nostri giorni sperare è un’opera che si compie nell’impegno, nella fatica, nella contrapposizione; sperare oggi più che mai significa scommettere e combattere: scommettere che abbia ancora un senso sperare; combattere, perché sperare è un gesto interiore ed esteriore compiuto contro tutto ciò che intorno a noi spinge piuttosto alla rassegnazione e alla disperazione. Del resto, in quelle parole rese celebri da La Pira spes contra spem (cf. Rm 4,18) non si voleva forse trasmettere – lui che si era fatto paladino della pace tra i popoli – un senso agonico della speranza, in faccia alle potenze del mondo che paiono coalizzarsi contro di essa?
Ma, allora, che speranza è quella in cui dobbiamo entrare con fiducia e con determinazione? In altri termini, dove aver provato a dire come è questa speranza, ora ci chiediamo per chi essa sia. Per chi deve sperare la Chiesa impegnata nel cammino del Giubileo? E ci domandiamo subito: sarebbe una vera speranza quella che vale solo per il singolo? Per dirla in maniera più diretta: sarebbe all’altezza della speranza cristiana, una speranza che verrebbe a raggiungere solo l’individuo?
Possiamo leggere questo tempo giubilare segnato dalla speranza, in parallelo all’enciclica dedicata da Benedetto XVI a questa tra le tre virtù teologali: Spe salvi; anche in quell’occasione con l’ispirazione alla Lettera ai Romani (esattamente Rm 8,24). V’è un passaggio interessantissimo nella parte dell’enciclica aperta dalla domanda, per l’appunto: La speranza cristiana è individualistica? Al n. 13 dell’enciclica il papa riportava un brano che riprendeva dal capolavoro di de Lubac Catholicisme. Aspects sociaux du dogme e che il gesuita francese, poi cardinale aveva trascritto come esempio di una speranza individualistica: «Ho trovato la gioia? No … Ho trovato la mia gioia. E ciò è una cosa terribilmente diversa … La gioia di Gesù può essere individuale. Può appartenere ad una sola persona, ed essa è salva. È nella pace…, per ora e per sempre, ma lei sola».
Ma che gioia è, che speranza è quella che vale solo per uno? Sarà la gioia e la speranza dei puri, degli eletti, degli gnostici (per usare un termine che proprio papa Francesco ha reso nuovamente vulgato)… Una gioia triste, se possiamo definirla così con un ossimoro; una gioia a cui manca tantissimo: manca la bellezza della condivisione, la bellezza del cammino fatto assieme, la grandezza di una salvezza a cui tutti siamo chiamati, non solo io. Al contrario, l’immagine finale del libro dell’Apocalisse è l’immagine escatologica della nuova Gerusalemme: di una città rinnovata, sanata, trasfigurata; non di individui che vengono salvati. Ci pare che una speranza che non è per tutti, sia una speranza in ultima istanza ingiusta e ingrata. Non così Gesù. Non così il suo messaggio, non così la sua stessa vita. Non così lui che voleva (“voglio”, sì! dice proprio così…) «che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io». E il Giubileo della speranza tutto questo non potrà non considerarlo…