di Alessandro Clemenzia · Nell’anno giubilare che stiamo vivendo è tornato in auge un termine ricco di storia, che tuttavia evoca immediatamente grosse ferite con cui la Chiesa, a più riprese, ha dovuto fare i conti: si tratta delle indulgenze. Per questa ragione da parte dei teologi si rende necessario, ogni qualvolta si intenda presentare questo lemma, recuperarne il significato più preciso, al fine di non cadere nell’ambiguità.
Nella Costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina (1967), san Paolo VI ha illustrato su cosa si fondi la dottrina sulle indulgenze:
L’uso salutare delle indulgenze, tanto per ricordare le cose più importanti, insegna in primo luogo quanto sia “triste e amaro l’aver abbandonato il Signore Dio”. I fedeli, infatti, quando acquistano le indulgenze, comprendono che con le proprie forze non sarebbero capaci di riparare al male, che con il peccato hanno arrecato a se stessi e a tutta la comunità e perciò sono stimolati ad atti salutari di umiltà. Inoltre l’uso delle indulgenze ci dice quanto intimamente siamo uniti in Cristo gli uni con gli altri e quanto la vita soprannaturale di ciascuno possa giovare agli altri, affinché anche questi più facilmente e più intimamente possano essere uniti al Padre (n. 9).
Da queste parole si può evincere come le indulgenze siano intimamente legate, da un lato, al riconoscimento del proprio peccato e alla consapevolezza di aver infranto la relazione vitale con il proprio Creatore, dall’altro, al prendere sempre più consapevolezza che, per “rompere” il circuito chiuso e vizioso del peccato da cui da soli non si riesce a venire fuori, è necessario un intervento “esterno” di Dio attraverso la mediazione della Chiesa.
Paolo VI sottolinea inoltre come questa dimensione verticale delle indulgenze (vale a dire la novità di rapporto che si viene a costituire tra l’io del singolo credente e l’io di Cristo mediante il noi ecclesiale) porti con sé anche una dimensione orizzontale, in quanto per grazia rende capace il credente di fecondare nuove relazioni anche con gli altri io, affinché ciascuno a sua volta possa unirsi più intimamente al Padre. La soggettività della Chiesa nelle indulgenze, dunque, consiste nel suo essere la realtà attraverso cui i credenti realizzano con Cristo e tra di loro una nuova forma relazionale. Papa Francesco ha espresso questa duplice dinamica verticale e orizzontale attraverso il termine “misericordia”, come ha scritto nella bolla di indizione del giubileo straordinario Misericordiae vultus (2015):
Come si nota, la misericordia nella Sacra Scrittura è la parola-chiave per indicare l’agire di Dio verso di noi. Egli non si limita ad affermare il suo amore, ma lo rende visibile e tangibile. L’amore, d’altronde, non potrebbe mai essere una parola astratta. Per sua stessa natura è vita concreta: intenzioni, atteggiamenti, comportamenti che si verificano nell’agire quotidiano. La misericordia di Dio è la sua responsabilità per noi. Lui si sente responsabile, cioè desidera il nostro bene e vuole vederci felici, colmi di gioia e sereni. È sulla stessa lunghezza d’onda che si deve orientare l’amore misericordioso dei cristiani. Come ama il Padre così amano i figli. Come è misericordioso Lui, così siamo chiamati ad essere misericordiosi noi, gli uni verso gli altri (n. 9).
Per questo, aggiunge il Papa, «l’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia» (n. 10). Con questo lemma Francesco offre una netta priorità all’azione del perdono di Dio rispetto, tanto a ciò che il singolo fedele è capace o incapace di compiere, quanto alla natura giuridico-canonica della stessa mediazione ecclesiale.
Insieme al recupero del significato più autentico delle indulgenze, è altrettanto importante tenere conto di alcune sfide che vengono mosse dalla contemporaneità. Il gesuita Bernard Sesboué, in un testo intitolato La questione delle indulgenze. Una proposta alla Chiesa cattolica (EDB 2017), ha scritto:
A mio avviso, i cattolici dovrebbero accettare di cambiare il nome del processo penitenziale che porta alla piena liberazione delle conseguenze del peccato. Il termine “indulgenza” è troppo gravato dal peso dei conflitti storici per poter essere accettato oggi (p. 52).
La sfida sarebbe, dunque, quella di rintracciare un termine capace di esprimere il significato di “indulgenza” (si può già notare come la forma al singolare sia migliore rispetto al plurale). Don Andrea Drigani, in un articolo intitolato L’indulgenza segno del Giubileo dal 1300 al 2025 (Il Mantello della Giustizia, giugno 2024), ha mostrato come nella storia il termine “misericordia” sia stato interscambiabile con quello di “indulgenza” (in particolare “ottenere misericordia” e “ottenere l’indulgenza”), come si può notare nelle antichissime preghiere della Chiesa per coloro che erano morti in qualche situazione di peccato. Paolo VI, in Indulgentiarum doctrina, riporta questa antica formula di preghiera: «Perché noi, che giustamente siamo sottoposti ad afflizioni a causa dei nostri peccati misericordiosamente possiamo esserne liberati per la gloria del tuo nome» (n. 3).
Esiste, dunque, un termine capace di mostrare contemporaneamente la priorità dell’azione di Dio e la forma comunitaria della fede, anche in riferimento a quella comunione dei santi che san Paolo VI denominava la solidarietà soprannaturale (cf. n. 4), su cui non gravi il peso di un conflitto come, invece, avviene nel caso delle indulgenze?
La domanda rimane ancora aperta.