La peste del 1629 e la pandemia del 2019, continuità tra misure di quarantena e lockdown

di Francesco Romano · Esattamente cinque anni fa, il 17 febbraio 2020, un uomo di 38 anni residente a Codogno, in provincia di Lodi, mai recatosi in Cina, ma incontrato con un amico italiano rientrato dalla Cina il 21 gennaio, si presenta all’ospedale civico di Codogno accusando sintomi influenzali e gli viene diagnosticata una leggera polmonite.

Al peggioramento delle sue condizioni, ritornato per la seconda volta al pronto soccorso, viene sottoposto al tampone diagnostico non ancora previsto dai protocolli sanitari, risultando positivo. Per questo viene definito “Paziente 1”. In seguito anche la moglie incinta e un amico, sono risultati positivi. Altri tre casi sono stati confermati lo stesso giorno dopo che i pazienti hanno riportato sintomi di polmonite e il 20 febbraio sono stati confermati altri sedici casi (quattordici in Lombardia, due in Veneto), fra cui il primo decesso.

Dopo questi primi casi, sono state eseguite verifiche e controlli approfonditi su tutte le persone che erano state eventualmente in contatto o nelle vicinanze dei soggetti infetti. Dei 76 casi inizialmente scoperti, 54 sono riscontrati in Lombardia, 17 in Veneto, 2 in Emilia-Romagna, 2 in Lazio e 1 in Piemonte. Il 22 febbraio il numero sale a 152 casi.

Friuli-Venezia Giulia il 29 febbraio.

Scorrendo le cronache che ricordano la peste del 1629 sembra in qualche misura di vivere le stesse situazioni nonostante la distanza di alcuni secoli. Il primo avviso ufficiale del pericolo della peste raggiunse Prato intorno alla fine di ottobre 1629. Una lettera in data 26 ottobre degli ufficiali della Sanità di Firenze ingiungeva all’amministrazione locale di collocare guardie per i controlli sanitari. Erano passati solo cinque giorni da che la notizia dello scoppio della peste a nord del lago di Como aveva raggiunto Milano, e l’azione dell’Ufficio di Sanità di Firenze non avrebbe potuto essere più tempestiva.

In risposta alla lettera di Firenze, il Consiglio di Prato, il 27 ottobre, nominò prontamente quattro cittadini ad “officiali di Sanità”: Gli ufficiali di Sanità dovevano occuparsi di tutte le faccende concernenti direttamente o indirettamente la pubblica salute. Tra i loro compiti c’era anche quello dell’appostamento delle guardie. In mancanza di ogni conoscenza in materia di vaccinazione, preghiere e processioni a parte, il ricorso al cordone sanitario era la sola misura preventiva cui ci si potesse aggrappare. Normalmente si stabilivano due linee di difesa, una ai confini del territorio, ai valichi delle montagne e ai guadi, l’altra alle porte della città. Il primo novembre, gli ufficiali di Prato informarono quelli di Firenze di aver provveduto a tutto quanto stabilito nelle istruzioni del 26 ottobre. Il 27 dicembre, dato il clima freddissimo, gli ufficiali ordinarono la costruzione di baracche per le guardie a tre delle otto porte.

Col maggio del 1630 le notizie provenienti dal nord divennero allarmanti. La peste era stata riconosciuta a Bologna. Immediatamente il Magistrato della Sanità di Firenze impose l’obbligo delle “bollette” o passaporti sanitari per chiunque si muovesse dalla località di residenza; nessuno che ne fosse privo avrebbe potuto esser ammesso nel territorio dello Stato o in luogo citato. Il 14 maggio, Firenze ingiunse agli ufficiali di Prato di nominare un addetto al rilascio dei passaporti. Due giorni dopo l’ordine era eseguito. Intanto a Bologna la situazione andava tragicamente deteriorandosi. Il 12 giugno Firenze inviava d’urgenza soldati al confine settentrionale del Gran Ducato, stabilendo un posto di guardia ogni tre miglia. La Sanità di Firenze ordinava agli ufficiali della Sanità delle città e dei luoghi murati del Gran Ducato di usare la massima prudenza nel rilasciare passaporti.

Un cordone sanitario è misura necessaria, ma raramente sufficiente, soprattutto se l’agente patogeno è sconosciuto e invisibile, se il vettore animale non è sospettato. Le precauzioni degli ufficiali sanitari non riuscirono a fermare il nemico. In luglio la peste invase Trespiano, in agosto la peste era penetrata in Firenze e a Tavola, un piccolo villaggio nella giurisdizione di Prato. È possibile che essa abbia fatto breccia in Prato in quello stesso periodo, anche se il primo caso fu ufficialmente diagnosticato in Prato solo il 19 settembre.

Trespiano e Tavola vennero isolati e a Firenze numerose case vennero messe in quarantena. All’inizio di gennaio del 1631 la Sanità di Firenze decretò per tutte le comunità del territorio la “quarantena generale”. Era una misura tipica in tempo di peste intesa ad accelerare la soluzione che consisteva nel limitare i movimenti delle persone costringendo la gente in casa e proibendo riunioni e assembramenti per la durata di quaranta giorni.

L’idea di una quarantena generale fu accanitamente discussa. Comunque, sia pure a un tasso ridotto, la mortalità continuò a decrescere. Tutto lasciava sperare per il meglio, ma dopo la metà di marzo, con l’avvento della primavera, l’epidemia riprese un certo vigore.

Non era facile accettare la cruda e tragica realtà. I medici cominciarono a discutere se si trattasse veramente di peste e gli ufficiali sanitari di Firenze, in attesa del verdetto, emanarono rassicuranti bollettini, ingannando sé e gli altri, ma la verità spaventosa e allucinante divenne di giorno in giorno più evidenti. In giugno del 1631 l’epidemia raggiunse il suo ultimo picco. Poi l’11 luglio il Consiglio cittadino dichiarò che “per la Dio Gratia, da ventidue giorni in qua non si sono scoperti malati né veduti morti in questa terra” e decise quindi di riaprire le scuole e di richiedere nuovamente a Firenze la sospensione del bando.

Il 17 luglio la Sanità di Firenze tolse il bando. Le maggiori probabilità di risultati positivi erano offerte da cordoni sanitari. Abbiamo esempi di comunità che sfuggirono al contagio grazie all’incessante e inflessibile sorveglianza esercitata lungo la linea di difesa. Tuttavia per le grandi città i commerci erano vasti e frequenti, questo tipo di difesa era destinato al fallimento.

Gli ufficiali sanitari del seicento, che non sapevano niente né di batteri né di esami batteriologici, non avevano elementi su cui basare la propria azione, insistevano su l’isolamento dei convalescenti di almeno quaranta giorni, ma erano spesso propensi a prolungarlo a sessanta o anche ottanta giorni.

La massa della popolazione dimostrava scarsa simpatia per ogni forma di disciplina, era difficile tenere isolati perfino gli appestati del lazzaretto. Di più c’erano spesso interessi che entravano in conflitto con le esigenze della pubblica sanità. I mercanti e gli artigiani non si sottoponevano facilmente alle ordinanze che proibivano scambi con le aree colpite e spesso riuscivano a ottenere esenzioni che venivano a spezzare la delicata struttura difensiva messa in piedi dagli ufficiali di Sanità. La Chiesa si opponeva alle disposizioni che proibivano processioni e prediche.

La politica economica dei Gran Duchi favoriva le manifatture fiorentine a danno di quelle dei centri minori. Tuttavia, anche nei casi in cui i patrimoni privati non erano particolarmente vulnerabili dalle vicissitudini dell’attività commerciale e manifatturiera, la peste costituiva un disastro economico per l’intera comunità.

Le entrate del comune provenivano essenzialmente dalle imposte indirette, le gabelle, e della decima prediale. La peste sconquassò questo delicato equilibrio. Con la peste le entrate cittadine si contrassero e questa contrazione sarebbe stata maggiore se molte gabelle non fossero state appaltate a esattori privati sostituendo così un’entrata fluttuante con una fissa.

Le maggiori probabilità di risultati positivi erano offerte dai cordoni sanitari. Vi erano comunità che sfuggirono al contagio grazie all’incessante e inflessibile sorveglianza esercitata lungo la linea di difesa. Tuttavia, per le grandi città dove i commerci erano vasti e frequenti, questo tipo di difesa era praticamente destinato al fallimento. La povertà impose scelte, e le esigenze sanitarie dovevano venire sacrificate alla opprimente scarsità delle risorse economiche.