«Amabilità, mansuetudine e benevolenza»: nomi differenti, una sola immagine

319 500 Stefano Tarocchi
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di Stefano Tarocchi · Nella liturgia delle domeniche d’avvento di questo anno “C”, ed esattamente la terza domenica, si leggono queste parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Filippi: «fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!  Esorto Evòdia ed esorto anche Sìntiche ad andare d’accordo nel Signore. E prego anche te, mio fedele Cooperatore – letteralmente  “Syzygo”,  un nome che è tutto un programma! –, di aiutarle, perché hanno combattuto per il Vangelo insieme con me, con Clemente e con altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita».  Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. 5 La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù» (Fil 4,1-9).

Il termine greco usato, epieìkeia (o epikèia, per semplificare), esprime un concetto etico e giuridico, riferito all’applicazione della legge con un senso di giustizia e umanità, piuttosto che seguendo rigidamente la lettera della legge. E quindi: “equità” o “clemenza”. Aristotele, nella sua duplice “Etica” , la descrive come la capacità di applicare la legge in modo flessibile e umano, tenendo conto delle circostanze specifiche di ogni caso. Si accompagna all’aequitas romana, intesa come ideale di perfetta giustizia e alla misericordia, o benignitas, cristiana. In pratica, l’epikèia permette di adattare le norme legali alle circostanze specifiche, tenendo conto delle intenzioni e delle situazioni particolari, per raggiungere un risultato più giusto e umano.

Possiamo ritrovare la stessa radice greca in almeno altri testi, a cominciare dalla seconda lettera ai Corinzi, dalla mano dell’apostolo Paolo: «io stesso, Paolo, vi esorto per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo, io che, di presenza, sarei con voi debole ma che, da lontano, sono audace verso di voi: vi supplico di non costringermi, quando sarò tra voi, ad agire con quell’energia che ritengo di dover adoperare contro alcuni, i quali pensano che noi ci comportiamo secondo criteri umani» (2 Cor 10,1-2). 

Possiamo riferirci inoltre a due altri testi delle lettere cosiddette pastorali di Paolo, che appartengono alla “tradizione” dello stesso apostolo, a cominciare dalla lettera al discepolo Tito, nei passaggi in cui gli consegna come impostare la sua predicazione: «questo devi insegnare, raccomandare e rimproverare con tutta autorità. Nessuno ti disprezzi! ricorda loro di essere sottomessi alle autorità che governano, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona; di non parlare male di nessuno, di evitare le liti, di essere mansueti, mostrando ogni mitezza – che rafforza la prima! – verso tutti gli uomini.  Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, corrotti, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, odiosi e odiandoci a vicenda» (Tt 2,15-3,3).

Infine, possiamo riportare le istruzioni che lo stesso apostolo, o chi riporta il suo insegnamento, impartisce al fedele Timoteo, vescovo ad Efeso. Lo scritto descrive le condizioni per chi deve aspirare al servizio di vescovo. Senza entrare in questioni estremamente complesse, sono molto interessanti le qualità richieste a chi deve governare la chiesa locale in quella stagione del cristianesimo, e che comunque devono essere oggetto di riflessione anche oggi: «questa parola è degna di fede: se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro.  Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola donna, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro.  Sappia guidare bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi e rispettosi, perché, se uno non sa guidare la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?  Inoltre, non sia un convertito da poco tempo, perché, accecato dall’orgoglio, non cada nella stessa condanna del diavolo.  È necessario che egli goda buona stima presso quelli che sono fuori della comunità, per non cadere in discredito e nelle insidie del demonio» (1 Tim 3,1-7).

Per riassumere in breve in questa rassegna incompleta contenuta all’interno del Nuovo Testamento si può parlare di «amabilità, mansuetudine e benevolenza». Però, è necessario entrare dentro il testo originale della Scrittura per comprenderlo realmente nella sua profondità. Un insegnamento che non smette di essere attuale, soprattutto di questi tempi e per i contenuti ai quali fa riferimento.

Non si tratta tuttavia di una semplice questione di traduzione dal greco antico alla nostra lingua, che peraltro nel mondo cattolico è diventata attuale solo a partire dagli insegnamenti degli anni precedenti al Concilio Vaticano II (lo stesso magistero di Pio XII), dello stesso Concilio (la costituzione Dei Verbum, ancora inapplicata totalmente, soprattutto nel capitolo VI, sulla “Sacra Scrittura nella vita della Chiesa”), e oltre, fino a Benedetto XVI.

Si può così concludere che spetta ai vescovi, «ammaestrare opportunamente i fedeli loro affidati sul retto uso dei libri divini, in modo particolare del Nuovo Testamento e in primo luogo dei Vangeli, grazie a traduzioni dei sacri testi; queste devono essere corredate delle note necessarie e veramente sufficienti, affinché i figli della Chiesa si familiarizzino con sicurezza e profitto con le sacre Scritture e si imbevano del loro spirito» (DV 25).
Si tratta di una strada che evita di rimanere confinati in una lettura superficiale, svenduta come “spirituale”  e quanto mai pericolosa.

 

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Stefano Tarocchi

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