di Stefano Liccioli · Il titolo un po’ provocatorio di questo articolo me l’ha suggerito un’affermazione ironica di Lucy, il personaggio della striscia a fumetti “Peanuts”di Charles Schulz:«A Natale son tutti più buoni. È il prima e il dopo che mi preoccupa». Qualche settimana prima di Natale avevo letto infatti i dati ISTAT riguardo al numero di toscani impegnati in organizzazioni di volontariato che dal 2014 al 2022 è calato di circa 60.000 unità. Sempre più o meno negli stessi giorni era apparso sul “Sole 24 ore” un articolo che metteva in luce come solo il 7,5% dei ragazzi con meno di 35 anni si dedicasse al volontariato, erano il 10% una decina di anni prima. Guardando all’intera popolazione italiana nel suo complesso nel 2023 il numero di persone che dichiarano di svolgere attività di volontariato si attesta al 7,8%, 2 punti percentuali in meno rispetto al 2019. Inoltre solo l’11% degli adulti finanzia anche con poco una qualche associazione, il valore più basso dal 2005 e nettamente inferiore valore del 2019 (13,4%).
Secondo, dunque, questi dati ha ragione Lucy dei Peanuts: la bontà degli italiani sembra relegata al solo giorno di Natale (ammesso e non concesso che a Natale ci sia in effetti tutta questa bontà). Qualcuno mi potrebbe subito obiettare che per essere caritatevoli verso il prossimo non occorre essere impegnati in qualche associazione. Questo è vero: com’è andata in crisi l’appartenenza ai partiti politici (lo dimostra il calo inesorabile degli iscritti), altrettanto si potrebbe dire di quella alle realtà di volontariato. Può darsi che l’altruismo delle persone abbia assunti i caratteri di uno spontaneismo non strutturato, diventando una sorta di fenomeno carsico, meno visibile all’esterno, ma non meno efficace e che si esprime nell’aiutare, senza tessere o divise, il vicino, il collega, nel compiere un pellegrinaggio verso chi ci abita accanto. Messo in questi termini è difficile, se non impossibile, fare statistiche e misurare il livello di filantropia della gente: lasciamo il compito, come sempre, al Padre che vede nel segreto e ci ricompenserà (Mt, 6,3-4).
Ci tengo comunque ad esplorare quelle che ritengo le cause della diminuzione dei volontari nelle associazioni perché mi dà l’occasione per sviluppare delle riflessioni. Oltre alla sopracitata crisi del senso di appartenenza e partecipazione a realtà strutturate, credo che un’altra ragione sia il fatto che le persone lavorano più a lungo rispetto a prima: i pensionati cinquantenni che avevano energie e tempo a disposizione sono un lontano ricordo. Allo stesso tempo i pensionati nonni sono spesso particolarmente impegnati con i nipoti visto che entrambi i genitori lavorano.
C’è però a parer mio un’altra causa che forse è la peggiore e cioè il crescente individualismo che sembra caratterizzare la nostra società, sempre più plasmata su un modello culturale secondo cui la propria realizzazione consiste nell’essere autonomi e secondo il quale si è tanto più liberi e felici quanto meno abbiamo bisogno degli altri. In questa prospettiva il tempo è qualcosa di prezioso che deve essere usato solo per se stessi e per le proprie gratificazioni personali. Il tempo libero è diventato un idolo così come la cura estetica del proprio corpo. Con questi presupposti non c’è spazio per il prossimo e i suoi bisogni, ma solo per i desideri e le necessità del proprio io Ci si ricorda delle associazioni di volontariato solo quando si ha bisogno dei loro servizi e a quel punto si pretende che gli altri siano disposti a fare quello che noi non vogliamo fare.
I dati ISTAT riguardo al volontariato devono essere letti in parallelo con quelli, ancor più preoccupanti, del calo demografico: dal 2008 al 2023 le nascite sono diminuite di 197mila unità (-34,2%), un trend che ha già e nel giro di poco tempo avrà ancora di più conseguenze devastanti per l’Italia. I numeri che riguardano la demografia confermano, a mio avviso, quanto detto in precedenza sull’individualismo: è il segnale di una società che si sta ripiegando su stessa, autoreferenziali, attenta solo ai propri bisogni e agli altri nella misura in cui sono strumenti per realizzare i propri fini.
Ciò che mi preoccupa maggiormente è che questa idea sta contagiando le nuove generazioni (come ho riportato nell’incipit dell’articolo solo il 7,5% dei ragazzi con meno di 35 anni si dedica al volontariato, contro il 10% di una decina di anni fa). L’emergenza educativa che la Chiesa italiana aveva messo in evidenza oltre 10 anni fa mi sembra si sia aggravata con il passare degli anni. Occorrono educatori autorevoli, persone che testimonino con la propria vita che il tempo non è denaro, ma spazio dell’amore (Don Tonino Bello) perché se le parole ammoniscono solo gli esempi trascinano.
In conclusione, la diminuzione del numero dei volontari nelle associazioni italiane è un fenomeno complesso, radicato in un contesto sociale e demografico in evoluzione. Affrontare questa sfida richiede un impegno collettivo e una riflessione profonda anche su cosa significhi essere parte di una comunità. Solo così potremo sperare di invertire la tendenza e valorizzare il dono del tempo dedicato agli altri, riscoprendo il valore del volontariato come strumento di coesione sociale e crescita personale.