Un mondo sempre più ricco con disuguaglianze sempre più grandi, ma si può fare diversamente

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di Leonardo Salutati · Il rapporto Oxfam (la confederazione internazionale di organizzazioni non profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale, attraverso aiuti umanitari e progetti di sviluppo) dello scorso febbraio, Disuguaglianza. Il potere a servizio di pochi, descrive una situazione di disparità economica che, ormai da anni, sembra inarrestabile e con dimensioni sempre più grandi e preoccupanti. Per avere un’idea delle dimensioni del fenomeno riportiamo alcuni dati del rapporto.

Nel 2022 solamente lo 0,4% delle più di 1.600 aziende maggiori e più influenti a livello mondiale si è impegnato a garantire ai propri dipendenti un salario che possa essere considerato dignitoso; invece, dal 2010 il patrimonio dei 5 miliardari più ricchi al mondo è più che raddoppiato con un tasso di crescita tre volte superiore a quello dell’inflazione. Nello stesso periodo la ricchezza del 60% più povero della popolazione mondiale non ha registrato nessuna crescita. Tra luglio 2022 e giugno 2023, per ogni 100 dollari di profitti generati da 96 grandi gruppi aziendali, ben 82 dollari sono stati corrisposti agli azionisti attraverso buyback azionari e dividendi.

La crescita delle disuguaglianze è poi strettamente collegata alle pratiche di elusione delle tasse che sfruttano le lacune e le imperfezioni del sistema normativo e la mancanza di trasparenza fiscale, nonché al ricorso ai paradisi fiscali. Questo comporta, secondo il Rapporto Oxfam, che circa 200 miliardi di dollari vengono persi ogni anno dagli Stati a causa di pratiche fiscali scorrette che, concretamente, significa scuole non costruite, tagli alla sanità e alla ricerca. A questo si aggiunga che, negli ultimi quarant’anni, l’aliquota legale media sui redditi societari si è più che dimezzata nei Paesi OCSE, passando dal 48% nel 1980 al 23% nel 2022.

L’analisi di Oxfam trova conferma in un altro autorevole studio, il Global Wealth Report redatto ogni anno dall’istituto finanziario svizzero UBS dove, tra i tanti dati, troviamo che, nel mondo, le 26 persone più ricche hanno lo stesso patrimonio degli 1,5 miliardi di persone più povere. In Italia, dal 2008 a oggi la ricchezza media è scesa ed è aumentata la disuguaglianza tra gli italiani. A livello di ricchezza mondiale, poi, la metà è detenuta da appena 58 milioni di persone, mentre l’altra metà è divisa tra i restanti sette miliardi circa.

Una tale situazione comporta che ad elevati livelli di disuguaglianza sono correlati: elevata instabilità economica, maggiori rischi di crisi finanziarie, alti livelli di corruzione e criminalità, minore salute fisica e mentale dei cittadini. Senza considerare che, come da tempo denuncia il Premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz (2016) sulla base dei dati elaborati dai ricercatori dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo (OECD) nel rapporto del 2014 Tendenze nell’ineguaglianza dei redditi e il loro impatto sulla crescita economica, la disparità è uno svantaggio non solo per chi ne è colpito ma per l’economia in generale di ogni Paese.

Diversamente da quanto verificatosi negli anni successivi alla 2° Guerra Mondiale, dove il movimento dei capitali era controllato dagli stati e il modello keynesiano che guidava l’economia aveva garantito stabilità economica e finanziaria ed una più equa redistribuzione della ricchezza prodotta, il fenomeno della crescente diseguaglianza di reddito e di ricchezza è strettamente correlato alla deregulation e alla libera circolazione dei capitali che, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, caratterizza l’economia mondiale (G. Giraud, La rivoluzione dolce della transizione ecologica, 2022).

Tutto questo ha un’importante rilevanza etica. «Un esempio chiaro di ciò che accade oggi è la fuga di capitali all’estero. Anche il denaro ha una patria, e chi sfrutta un’industria all’interno di un paese e poi porta via il guadagno per custodirlo all’estero commette peccato, perché così facendo non onora il Paese che gli dà questa ricchezza, né il popolo che lavora per produrla […] In tutti i casi di beneficio economico bisogna considerare la dimensione del debito sociale» (J. Bergoglio – A. Skorka, 2013). Detto altrimenti i proventi generati da un’impresa sono possibili grazie al contributo della collettività (gli stakeholder) che, di fatto, genera un debito dovuto dall’imprenditore all’insieme della collettività. Non reinvestire, almeno in buona parte, i proventi nel Paese in cui vive la collettività e decidere di trasferire i capitali altrove, equivale al mancato rimborso di quel debito sociale.

Di conseguenza, «Se esiste la povertà estrema in mezzo alla ricchezza — a sua volta estrema — è perché abbiamo permesso che il divario si ampliasse fino a diventare il più grande della storia … in non poche situazioni, ci troviamo di fronte a una mancanza di volontà e di decisione per cambiare le cose e principalmente le priorità … quando l’economia e la finanza diventano fini a se stesse … È l’idolatria del denaro, la cupidigia e la speculazione … Tuttavia un mondo ricco e un’economia vivace possono e devono porre fine alla povertà» (Papa Francesco, 2020), perché è possibile generare e promuovere dinamiche capaci di includere, alimentare, curare e vestire gli ultimi della società invece di escluderli, così come è successo nel 2° dopoguerra. «Dobbiamo scegliere a che cosa e a chi dare la priorità: se favorire meccanismi socio-economici umanizzanti per tutta la società o, al contrario, fomentare un sistema che finisce col giustificare determinate pratiche che non fanno altro che aumentare il livello d’ingiustizia e di violenza sociale» (ibidem).

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Leonardo Salutati

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