Se vuoi la pace, prepara la pace. La lezione di La Pira per i nostri giorni.
di Stefano Liccioli · “Si vis pacem, para pacem” (“Se vuoi la pace, prepara la pace”) è il titolo attribuito ad un’intervista a Giorgio La Pira del dicembre 1965. La conversazione del Sindaco santo con il giornalista de’ “L’Avvenire d’Italia” è riportata ne’ “Il sentiero di Isaia”, il libro che, uscito ad un anno dalla morte di La Pira, raccoglie alcuni suoi discorsi ed interventi tenuti dal 1961 al 1977.
Il titolo rivisita, secondo una prospettiva diametralmente opposta, il celebre motto latino “Si vis pacem, para bellum” (“Se vuoi la pace, prepara la guerra”). Il tema dell’intervista a La Pira è la guerra in Vietnam per la quale il Professore intravedeva un’unica soluzione, quella politica e non militare:«Siccome non si può spingere il pericolo attuale fino al limite della guerra nucleare; siccome tutti i popoli, da quello americano a quello vietnamita, desiderano rapidamente l’inizio delle trattative, io credo che ci sia margine per coraggiose iniziative che conducano all’apertura di trattative non solo per la pacificazione del Vietnam, ma per il disarmo e la pace del mondo intero». Vale la pena ricordare che lo stesso La Pira, poche settimane prima dell’intervista, era stato ad Hanoi per incontrare Ho Chi Min, leader del Vietnam del Nord ed insieme avevano elaborato un progetto di pace che successivamente fu però sabotato, ma che aveva sostanzialmente le stesse clausole dell’accordo firmato a Parigi nel 1973, tra U.S.A. e Vietnam, dopo altri 8 anni di guerra.
Le posizioni del Sindaco santo sono state spesso bollate come utopie, ma è proprio l’utopia che ci può aiutare a sperare l’insperabile, a cercare ciò che la ragione non riesce ad immaginare. Per dirla con San Paolo VI:«Il mondo si arrenderà all’utopia».
Il diritto alla difesa, anche con le armi, di un popolo contro un altro che l’aggredisce non ci può illudere che costituisca la via per realizzare una pace duratura che, secondo me, passa piuttosto da altri percorsi. Questo non vuol dire legittimare invasioni ed aggressioni, ma tenere presente che la vera pace passa lungo il “sentiero di Isaia”, quello che porta a «trasformare le spade in aratri e le lance in falci» (Is 2,4). Non riesco ancora ad accettare l’idea (e, se non cambiano le cose, spero di non riuscirci mai) che con i soldi spesi ogni anno in armamenti si potrebbe fare del mondo un giardino piuttosto che un deserto di macerie.
D’altra parte come possiamo chiedere che le nazioni ed i popoli smettano di farsi la guerra, se nel nostro piccolo mondo e soprattutto nel nostro cuore coltiviamo pensieri distruttivi ed ostili nei confronti di chi lavora al nostro fianco, di chi abita vicino a noi o, addirittura, insieme a noi.
Non mi convince quel pacifismo retorico e di facciata secondo cui per essere dei veri costruttori di pace basti esporre una bandiera o condividere su Facebook un post contro la guerra.
I segnali che siamo un popolo che purtroppo ama la spada più dell’aratro, tanto per rimanere nell’immagine offerta dal profeta Isaia, lo vedo non solo dai conflitti che incendiano tanti punti del nostro pianeta, ma da quel crescente individualismo che sembra divorare sempre più l’umanità, anche e soprattutto quella che pensa di vivere in pace. Le logiche che attraversano la nostra società sono sempre più autoreferenziali: i miei bisogni, i miei problemi, i miei desideri. Ma, come diceva, Raoul Follereau, «nessuno ha il diritto di essere felice da solo». O, almeno, si può vivere pensando di avere questo diritto, ma con delle conseguenze negative per la comunità a cui apparteniamo. Occorre, invece, secondo un altro adagio, «guarire nel proprio cuore il cuore del mondo».
Concludo questa mia riflessione con due passaggi di altrettanti discorsi che Papa Francesco ha pronunciato lo scorso 25 aprile incontrando a Roma rispettivamente un gruppo di pellegrini dall’Ungheria ed oltre 50.000 soci e amici dell’Azione cattolica italiana provenienti da tutto il Paese.
Le parole del Santo Padre mi sembra che, sicuramente meglio di quanto abbia fatto io, esprimano però lo stesso concetto e cioè la necessità dell’impegno individuale e quotidiano, lì dove si è, per costruire la pace nel mondo.
Ai primi infatti il Pontefice ha detto:«Il Risorto, apparendo in mezzo ai suoi discepoli, ha donato loro la pace. Non dimentichiamo, fratelli e sorelle, che la realizzazione di questo grande dono inizia nel cuore di ognuno di noi; inizia davanti alla porta di casa mia quando, prima di uscire, decido se voglio vivere quel giorno come un uomo o una donna di pace, cioè di vivere in pace con gli altri. La pace nasce quando decido di perdonare, anche se è difficile, e questo riempie il cuore di gioia».
Con l’Azione Cattolica Italiana, che aveva intitolato il suo incontro “A braccia aperte”, il Papa ha affermato:«Lo slancio che oggi esprimete in modo così festoso non è sempre accolto con favore nel nostro mondo: a volte incontra chiusure, a volte incontra resistenze, per cui le braccia si irrigidiscono e le mani si serrano minacciose, divenendo non più veicoli di fraternità, ma di rifiuto, di contrapposizione, anche violenta a volte, un segno di diffidenza nei confronti degli altri, vicini e lontani, fino a portare al conflitto. Quando l’abbraccio si trasforma in un pugno è molto pericoloso. All’origine delle guerre ci sono spesso abbracci mancati o abbracci rifiutati, a cui seguono pregiudizi, incomprensioni, sospetti, fino a vedere l’altro un nemico. E tutto ciò purtroppo, in questi giorni, è sotto i nostri occhi, in troppe parti del mondo! Con la vostra presenza e con il vostro lavoro, invece, voi potete testimoniare a tutti che la via dell’abbraccio è la via della vita».