San Massimo, confessore… della volontà umana di Gesù

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di Francesco Vermigli · Il 13 agosto cade la ricorrenza liturgica di un padre della Chiesa tra i più rilevanti. San Massimo il Confessore si staglia nel panorama della patristica orientale come esempio di testimone intransigente – quasi in solitaria, in mezzo ad un clima ecclesiale in gran parte contrario – di quanto si possa e si debba difendere una posizione teologica; anche se questo significa la menomazione, l’esilio e il carcere.

Ad un’epoca come la nostra in cui – per parafrasare Paolo – a stento si trova qualcuno che voglia sacrificare la propria vita per lo studio della teologia, la biografia di Massimo apparirà surreale e, in fondo in fondo, venata di integralismo. Se appare così, è perché abbiamo del dogma (così caro invece a Massimo) un’immagine scadente e scaduta; quasi che il dogma non abbia niente a che fare con la Chiesa e con la vita spirituale del singolo. Ma la Chiesa sa (e lo sa, come lo sa chi ne ha fatto esperienza nella storia) che chi pensa bene le cose di Dio, anche le prega bene e bene le fa diventare linfa per la propria stessa vita. Oppure quel celebre tricolon: lex credendi, lex orandi, lex vivendi è solo un vezzo di erudizione ecclesiale?

Il nostro abbrivio (così in medias res…) forse è comprensibile solo a chi conosca almeno Massimo e un po’ la sua teologia. È, dunque, necessario giustificare le prime considerazioni, accennando al punto capitale della sua biografia e del suo pensiero.

Massimo è personalità che si colloca nell’epoca dell’impero di Eraclio; epoca segnata da un rinnovato espansionismo della romanità verso Est contro il mondo persiano. Chi non ricorda le vicende della Vera Croce che – sottratta dai persiani che avevano raso al suolo il Santo Sepolcro nel 614 – alla fede cristiana era stata restituita da Eraclio vincitore sui Sassanidi, che (grazie all’opera nascosta di un orafo di religione cristiana?) non l’avevano distrutta! Questa, dunque, è l’epoca di Massimo, che secondo le opinioni più probabili sarebbe nato attorno al 580 e forse sulle alture del Golan; proprio quelle alture che in questi giorni sono tornate tristemente alla ribalta.

Ma l’epoca di Eraclio è anche l’epoca in cui l’Impero bizantino prova l’ultimo tentativo di riconciliazione con la fazione monofisita; quella fazione che in verità era stata sottoposta a proscrizione a Calcedonia nel 451, laddove il Concilio dice che le due nature in Cristo sono unite «senza confusione, senza mutamento»; cioè, prosegue Calcedonia, «non essendo venuta meno la differenza delle nature a causa della loro unione, ma anzi essendo stata preservata la proprietà di ciascuna natura». Ultimo tentativo si diceva, perché – neanche a distanza di mezzo secolo da Calcedonia – l’Impero aveva già tentato la stessa strada, mediante il depotenziamento della carica dogmatica di Calcedonia, con il cosiddetto Henotikón sotto l’imperatore Zenone (a. 482).

Il tentativo di Eraclio si innesta su una lunga storia teologica, dunque; nel suo caso attraverso la promozione di quella opinione che va sotto il nome di monotelismo. Si tratta di quella dottrina, cioè, secondo la quale in Gesù si potranno pure concedere le due nature (pena l’immediata caduta nell’eresia), ma si dovrà affermare l’esistenza della sola volontà (θέλημα) divina: da cui quindi mono-telismo. Fu questa l’opinione prevalente nel corso dei decenni a cavallo della metà del VII secolo; accolta come opinione preferibile anche da quello stesso papa Onorio (come del resto accadde anche per Sergio patriarca di Costantinopoli) cui toccò in sorte di essere metaforicamente riesumato a distanza di secoli, quando si discuteva del dogma dell’infallibilità papale al Vaticano I. In fondo – Döllinger dixit – se è certificato che almeno una volta il papa abbia sbagliato, come potrà essere infallibile?

Già… perché quella posizione fu infatti rigettata al Concilio di Costantinopoli III del 680-681. Ironia della storia! Quella posizione che aveva sostenuto Massimo – e che l’aveva portato ad essere menomato della lingua (perché non predicasse più) e della mano destra (perché non amministrasse più i sacramenti) e ad essere esiliato e incarcerato fino alla morte – fu accolta al Concilio, svoltosi a vent’anni circa dalla morte di Massimo.

Il ragionamento di Massimo – che avrebbe in seguito ispirato il Concilio – è piuttosto semplice nella sua consequenzialità: se Gesù ha un’anima (λόγος) dal momento che è pienamente uomo (contro l’apollinarismo…), Gesù dovrà avere anche la volontà umana (θέλημα), che è una facoltà dell’anima. Semmai il modo (τρόπος) con cui Gesù possiede l’anima umana è diverso dal nostro, perché non è segnato dal peccato e dunque la volontà umana di Gesù ha la capacità di aderire pienamente alla volontà divina (ὑποτάσσω, come dirà il concilio di Costantinopoli, facendo risuonare Massimo).

Massimo merita il titolo di “confessore” perché ha confessato la vera fede su Gesù pienamente uomo, anche nella volontà; quella volontà umana che si manifesta nel momento culminante della nostra salvezza: al Getsemani e sulla croce. In quel momento Gesù compie l’atto di volontà più grande che un uomo abbia mai compiuto: morire per il mondo intero e per recare la salvezza.

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Francesco Vermigli

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