di Carlo Parenti · Un breve comma può fare un’enorme differenza. Nello status delle donne. A spiegare il perché è intervenuta la Prof. Patrizia Giunti ad una serata a cui ho partecipato a Montecatini Terme -in occasione della Festa della Donna- con un excursus sulla condizione giuridica femminile nel mondo romano poi raffrontata con quella contemporanea.
Giunti è Ordinaria di diritto romano a Firenze (con incarico in materia anche alla Pontificia Università Lateranense) e presidente della Fondazione La Pira. (vedi)
Le ‘pennellate’ -come le chiama la Professoressa – iniziano con l’evidenziare la specificità dello status femminile romano rispetto ad altri modelli dell’antichità quale ad esempio il mondo greco. Qui la legge sancisce l’inferiorità della donna in termini strutturali, fisici: tra madre e figlio non esiste un rapporto genetico, non c’è consanguineità. Alla madre si riconosce la sola gestazione perché non è lei a dare la vita bensì il seme paterno.
Negli stessi anni a Roma, siamo nel quinto secolo, si scrive una norma per la quale alla morte del padre, i figli maschi e femmine concorrono in modo assolutamente paritario alla successione ma dal punto di vista della titolarità dei diritti, fuori da questo orizzonte, le cose cambiano e la condizione femminile è inferiore a quella maschile’, spiega Giunti. Per legge alle donne è preclusa la condizione pubblicistica, come partecipare alla vita politica, alle attività finanziarie e forensi. Sappiamo da molti documenti che le donne avevano un’intensa vita letteraria, ma non ne rimane traccia.
L’atteggiamento esistenziale femminile doveva essere di basso profilo, di assoluta discrezione. Un mondo confinato nell’ esteriorità’.
E perché le donne accettassero questa condizione, per pareggiare le soddisfazioni concesse solo all’altro sesso, fu escogitata la logica della compensazione. Questa formale par condicio consisteva in due espedienti: nella cura dell’aspetto, dell’apparire, soprattutto nell’ostentazione dei monili e nell’ esclusiva attribuzione di un ruolo di centralità nell’ educazione dei figli fin dai primi anni di vita, nel critico periodo formativo di un individuo.
Dunque, la cultura romana anticipa il ruolo della donna nella famiglia moderna. Persino Tacito, che sospirava un ritorno all’antichità, fu il primo ad ammettere che Cesare e Augusto furono tali perché avevano avuto come madri Aurelia e Azia.
Se la prospettiva greca negava la maternità, Roma la esalta. E non solo. Di fatto se non di diritto, la donna aveva un ruolo ben oltre i confini delle restrizioni alla vita pubblica. Abbiamo testimonianze gestionali di grandi patrimoni, di attività imprenditoriali per non parlare dello sconfinato potere delle Vestali. Ma allora come si conciliano questi opposti? Giunti si appella a Rodotà che aveva dedicato gli ultimi anni della sua vita all’approfondimento del rapporto tra regole e concretezza della vita femminile attuale.
Oggi la donna vive una condizione di uguaglianza formale che copre obbiettive disuguaglianze sociali. Abbiamo un’uguaglianza di principio con l’art. 3 della Costituzione che sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini ma poi specifica che ‘è compito della Repubblica rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona’.
La prospettiva romana proclama quale fattore di ordine, la disuguaglianza formale che nel concreto si risolveva in una tollerata uguaglianza sostanziale. Esistevano ben circoscritti livelli gerarchici ma grazie all’ascensore sociale uno schiavo ad esempio, se liberato, poteva immediatamente godere di tutti i diritti di un civis romano. Il conservatore Cicerone riflette sulla crisi del sistema repubblicano e temendo prossimi tempi di rovina, arringa che se le mogli accedessero agli stessi diritti dei mariti, tutta la logica della Res Publica si rovescerebbe. La vera disuguaglianza nel rapporto tra marito e moglie è il pilastro fondante della Res Publica.
Facciamo ora un salto temporale al marzo 1947. Durante i lavori dell’Assemblea Costituente si esamina l’articolo 29 che concepisce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Era previsto un secondo comma che avrebbe dovuto sancire che il matrimonio è ordinato sull’ uguaglianza giuridica e morale dei coniugi. A sorpresa, proprio Calamandrei, da cui ci si aspettava un intento di riscatto della condizione subita dalla donna durante la dittatura fascista, si oppone: la disuguaglianza tra i coniugi è fondamentale per l’unità familiare. Proclamarne la parità sarebbe contrario al Codice Civile del ’42 che prevede che non debba sussistere una condizione paritaria: è il marito che dà il nome alla moglie e ai figli, è il marito che dà l’indirizzo della vita familiare, è il marito che stabilisce la residenza e la moglie lo deve seguire.
Sono passati 30 anni e l’uguaglianza dei coniugi arriverà con la riforma del diritto di famiglia del ’75. E l’articolo 29? Recita che’ il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi’. Ma segue una precisazione rilevante da sottolineare, ‘con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare’.
La strada è ancora lunga e in salita. La Professoressa conclude: ‘ Tanti modelli, tante idee stereotipe e preconcette dei nostri tempi -anche di dimensioni patriarcali- sono difficili da estirpare. La nostra stessa cultura ospita radici in questa direzione ma auspica che queste stesse radici rappresentino anche l’occasione per processi che debbano orientarsi verso un’uguaglianza e un oggettivo equilibrio dei rapporti uomo-donna’.
La serata si conclude con una standing ovation dei presenti per l’appassionata narrazione della Professoressa.
Chi fosse interessato può vedere la relazione al link https://youtu.be/xpmyf-FGxKM