Perché in Europa vince il partito del non voto

730 438 Antonio Lovascio
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di Antonio Lovascio · Non è stata certo una sorpresa. Era nell’aria, la logica conclusione di un dibattito noioso e sterile, noncurante dei molti e gravi problemi da cui siamo sovrastati. Dopo il voto l’Europa si ritrova – attorno all’asse costituito da Popolari, Socialisti e Liberali – un governo ed una maggioranza parlamentare più deboli rispetto a trent’anni fa, quando fu firmato il trattato di Maastricht e fu creato l’euro. Il dato più inquietante, che poi determina questa fragile stabilità, è l’astensionismo: a livello europeo siamo al 51% mentre in Italia, per la prima volta nella storia repubblicana, siamo precipitati addirittura sotto il 50%, dato che si è confermato anche alle Amministrative, in particolare nella “coda” dei ballottaggi. In venti anni nella Penisola si sono persi per strada più di dieci milioni di elettori. Un lampante segnale di protesta, indifferenza e soprattutto sfiducia da parte dei cittadini che non colgono più l’importanza della politica ed il suo autentico valore democratico. Che spiega anche l’affermazione in alcuni Paesi dell’estrema destra, con tratti chiaramente xenofobi che usano toni pieni di odio e che, in alcuni casi, non prendono affatto le distanze dall’uso della violenza.

Certo, come ha scritto il sociologo Mauro Magatti su “Avvenire”, è dalla crisi finanziaria del 2007-2008 che in Europa il modello socio-economico non riesce più a costruire il consenso necessario a stabilizzare la democrazia. Il ceto medio è in ritirata, le disuguaglianze aumentano, i giovani faticano ad avviarsi alla vita attiva e allora espatriano, mentre ci sono interi gruppi sociali e intere aree geografiche che vanno alla deriva. La povertà e l’emarginazione lievitano. Basta fare un giro in una delle tante periferie urbane o nelle aree interne o più fragili. Da tempo molti hanno smesso di credere alla promessa della crescita. Anche perché ritengono che il sistema politico sia incapace di intervenire in maniera efficace sulle ragioni di fondo di queste tendenze. E non hanno tutti i torti. Il cambiamento geopolitico e tecnologico – uno spaccato è stato fornito durante il G7 in Puglia con lo storico intervento di Papa Francesco sui rischi dell’Intelligenza Artificiale – richiederebbe aggiustamenti strutturali. Uno per tutti: abbiamo una montagna di risorse finanziarie concentrate nelle mani di pochi e che perciò non vengono impiegate per sostenere quella transizione giusta di cui tutti sentono la necessità.

Ma è altrettanto vero che l’astensionismo è il risultato di un processo di lungo periodo in cui si intrecciano fattori demografici, istituzionali, culturali e strettamente politici. C’entra il ricambio generazionale, c’entra la secolarizzazione, c’entra l’indebolimento dei partiti che non perdono il vizio di trattare le consultazioni europee come elezioni nazionali, quando invece ben sappiamo che non servono a cambiare gli equilibri a Roma, mentre degli equilibri a Bruxelles la gran parte di chi è chiamato alle urne non sa nulla o quasi. Come ha osservato Paolo Pombeni, storico e politologo tra i più autorevoli, nelle fasi di grande transizione, simili a quella che stiamo vivendo, l’incertezza per il futuro assume un ruolo dominante e innesca appunto due tipi di risposte. La prima è quella di chi vorrebbe fermare il mondo nell’illusione di poter tornare a un’età dell’oro che non è mai esistita, con un’appendice velenosa che è il nazionalismo, di cui vediamo ampiamente le conseguenze negative. La seconda è quella di chi pensa che, se bisogna cambiare tutto, allora è meglio anticipare, bruciare i tempi del mutamento. E in questo caso la coda velenosa è nel mito della rivoluzione, nell’illusione di poter sbarcare da un momento all’altro in un mondo nuovo. Il guaio è che ciascuna di queste risposte sbagliate finisce per alimentare l’altra.

In sostanza emerge la sensazione sempre più diffusa che le elezioni non servono a produrre quella trasformazione che tutti auspichiamo. Per contrastare l’astensionismo c’è soltanto una via da percorrere: la politica deve tornare a proporre soluzioni credibili e intorno al confronto tra proposte di questa natura si può creare lo spazio per recuperare la mobilitazione e la partecipazione convinta. Purtroppo, invece, in questa fase si manifesta una spinta alla radicalizzazione, che è una politica suicida per entrambi gli schieramenti, Destra e Sinistra. Tutti promettono soluzioni drastiche e veloci e i cittadini non riescono più a credere che esse siano possibili. Prendiamo il caso eclatante della sanità: il problema delle liste d’attesa non si può risolvere facendo fare le Tac agli specializzandi o immaginando di assumere molti più medici e infermieri quando non si sa da dove prendere i soldi per farlo. E così potremmo continuare con l’esemplificazione. Ma l’unico modo per riportare i cittadini alle urne è quello di ricostruire la fiducia nelle istituzioni, confermando ciò di cui oggi molti dubitano: cioè che la democrazia, il dialogo (e non la reciproca delegittimazione), la rappresentanza, lo stato di diritto costituiscono il metodo migliore per affrontare e risolvere le questioni comuni. In Italia ed in Europa.

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Antonio Lovascio

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